Così si chiama l’olio prodotto sulla sponda lecchese del lago di Como che per anni ha vissuto all’ombra di quello franto sul ramo opposto. Oggi ha ottenuto la DOP e, grazie al frantoio di Bellano sta raccogliendo ottimi risultati: una produzione ancora di nicchia ma di grande qualità.
I nomi e i toponimi sono importanti perché prefigurano un destino (omen nomen), molto spesso fanno parlare il passato, ci rivelano per esempio quale era la specialità o l’attività prevalente di un certo luogo. E’ il caso eclatante di Oliveto Lario, piccolo comune che, dal 1995, fa parte della provincia di Lecco e si affaccia sulla riva orientale di “quel ramo del lago di Como” di manzoniana memoria. Il toponimo testimonia inequivocabilmente la presenza dell’olivo, pianta tipicamente mediterranea, che riesce però a crescere anche a latitudini settentrionali, nel bel mezzo della montagne, grazie proprio al lago che, con il suo grande bacino, fra da “volano termico” e consente di mitigare notevolmente gli inverni. Sappiamo che coltivare gli olivi richiede molto tempo, mentre rende poco anche nelle regioni meridionali d’Italia dove il clima è molto propizio e le produzioni molto abbondanti, figuriamoci sulle rive del lago dove i vigneti sono quasi tutti su colline erte e talvolta terrazzate. Per anni l’olivicoltura lariana è stata ridotta a un simulacro di se stessa con gli olivi coltivati più a scopo ornamentale. Poi ad un certo punto, una decina di anni fa è rinata tornando a rappresentare un elemento fondamentale dell’agricoltura e del paesaggio del comprensorio del lago di Como. In particolare è da segnalare che lo sforzo più importante è stato compiuto proprio sulla sponda lecchese e cioè quella che, dal punto di vista dell’olivicoltura, aveva sempre “sofferto” la fama ben più solida della riva occidentale, vale a dire della zona attorno a Tremezzo e Lenno. Grazie alla regia della Comunità montana della Comunità montana del Lario Orientale (http://www.cmlarioorientale.it/) l’olivicoltura è stata dunque rilanciata e assistita in vari modi: con la fornitura di piantine giovani, l’assistenza agronomica e molte altre iniziative. Risultato: oggi l’olivicoltura lecchese può contare su un patrimonio di circa 18 mila piante che sono disseminate da Lecco fino all’abbazia di Piona, ovvero il limite settentrionale della coltura in ambito lecchese. Le piante di olivo di abbarbicano sulla montagna che digrada il lago fino a una quota massima di 400 metri, là dove si stemperano i benefici migratori del grande specchio d’acqua.
I nomi e i toponimi sono importanti perché prefigurano un destino (omen nomen), molto spesso fanno parlare il passato, ci rivelano per esempio quale era la specialità o l’attività prevalente di un certo luogo. E’ il caso eclatante di Oliveto Lario, piccolo comune che, dal 1995, fa parte della provincia di Lecco e si affaccia sulla riva orientale di “quel ramo del lago di Como” di manzoniana memoria. Il toponimo testimonia inequivocabilmente la presenza dell’olivo, pianta tipicamente mediterranea, che riesce però a crescere anche a latitudini settentrionali, nel bel mezzo della montagne, grazie proprio al lago che, con il suo grande bacino, fra da “volano termico” e consente di mitigare notevolmente gli inverni. Sappiamo che coltivare gli olivi richiede molto tempo, mentre rende poco anche nelle regioni meridionali d’Italia dove il clima è molto propizio e le produzioni molto abbondanti, figuriamoci sulle rive del lago dove i vigneti sono quasi tutti su colline erte e talvolta terrazzate. Per anni l’olivicoltura lariana è stata ridotta a un simulacro di se stessa con gli olivi coltivati più a scopo ornamentale. Poi ad un certo punto, una decina di anni fa è rinata tornando a rappresentare un elemento fondamentale dell’agricoltura e del paesaggio del comprensorio del lago di Como. In particolare è da segnalare che lo sforzo più importante è stato compiuto proprio sulla sponda lecchese e cioè quella che, dal punto di vista dell’olivicoltura, aveva sempre “sofferto” la fama ben più solida della riva occidentale, vale a dire della zona attorno a Tremezzo e Lenno. Grazie alla regia della Comunità montana della Comunità montana del Lario Orientale (http://www.cmlarioorientale.it/) l’olivicoltura è stata dunque rilanciata e assistita in vari modi: con la fornitura di piantine giovani, l’assistenza agronomica e molte altre iniziative. Risultato: oggi l’olivicoltura lecchese può contare su un patrimonio di circa 18 mila piante che sono disseminate da Lecco fino all’abbazia di Piona, ovvero il limite settentrionale della coltura in ambito lecchese. Le piante di olivo di abbarbicano sulla montagna che digrada il lago fino a una quota massima di 400 metri, là dove si stemperano i benefici migratori del grande specchio d’acqua.
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Le varietà di olivo maggiormente diffuse sono il frantoio (tipica della Toscana) e il leccino. La maggior parte degli oliveti si trovano sui terrazzi meglio esposti dei comuni di Perledo, Varenna, Dervio e Bellano. Si stima che in questo comprensorio si trovino circa 200 olivicoltori, buona parte hobbisti, mentre sono una trentina gli olivicoltori in grado di vantare un consistente numero di piante. L’elemento fondamentale della filiera olivo-olio è stato la creazione di un frantoio anche sulla sponda lecchese, avvenuta un paio di anni fa (prima ci si doveva trasferire fino a Tremezzo, con grande pregiudizio per la qualità del prodotto finale, poiché le olive si deteriorano nel trasporto). Con il contributo della comunità Montana è stato impiantato un piccolo frantoio presso l’azienda Poppo in località Biosio di Bellano. Tutti gli olivicoltori della provincia di Lecco portano qui le olive per la frangitura. Il regolamento di servizio del frantoio è molto severo e improntato sulla massima igiene e qualità. In particolare è vietato trasportare le olive in sacchi, dove le stesse potrebbero schiacciarsi e deteriorarsi. La campagna di raccolta e frangitura inizia il 15 Novembre e si protrae per un mese e mezzo circa. Il frantoio può lavorare al massimo tre quintali per volta, con un carico minimo di 150 chilogrammi, una quantità che consente a ogni olivicoltore di avere il proprio quantitativo di olio, anche se si tratta di pochi litri. Da qualche anno l’olio extravergine del lago di Como si può fregiare della DOP (denominazione di origine protetta) con la sottodenominazione “Lario” e siccome i quantitativi sono esigui, l’extravergine Dop Lario lecchese è confezionato da un pugno di produttori e le bottiglie sono assai rare, vendute quasi tutte sul posto e utilizzate sulle tavole dei ristoranti della riviera.
Foto di Riccardo Agretti (NB: le olive in foto sono quelle degli ulivi Lariani!)
Foto di Riccardo Agretti (NB: le olive in foto sono quelle degli ulivi Lariani!)
Testo tratto dal mensile OROBIE http://www.orobie.it/
PS: il nostro caro amico, nonchè Inuit del Lario "QIVITTOQ" (Gianni) produce l’olio ma nelle lontane e assolate colline molisane…
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