"Vorrei imparare dal vento a respirare, dalla pioggia a cadere,
dalla corrente a portare le cose dove non vogliono andare,
e avere la pazienza delle onde di andare e venire, ricominciare a fluire..."
(Tiromancino)

giovedì 30 aprile 2009

LIBRI – CONGRATULAZIONI NUNAVUT!

Forse non tutti sanno che il primo aprile 1999 è nato formalmente il territorio autonomo di Nunavut, "la nostra terra" in Inuktitut, ceppo linguistico delle popolazioni native del Grande Nord. Una nuova e immensa unità amministrativa del Canada Artico Orientale e Centrale che ospita 27.000 persone sparse su quasi due milioni di chilometri quadrati, con capitale Iqaluit (Baia dei pesci), dove si parlano le tre lingue ufficiali, Inuktitut, inglese e francese. L'emblema del nuovo stato, orgoglio dei nativi, ha i colori oro, bianco e blu, a simboleggiare le ricchezze della terra, del mare e del cielo, al centro un Inukshuk, simulacro di pietra che rappresenta la figura umana, simbolo di amicizia e solidarietà. In alto verso il battente Nitirqsuituq, la mitica stella polare, infallibile guida dei popoli nomadi, la cui fissità nella volta celeste rappresenta la saggezza degli anziani, dunque un richiamo ai valori tradizionali su cui è fondata l'identità del popolo del Grande Freddo. Già dagli anni settanta gli Inuit avevano accarezzato l'idea di una nazione che avesse un proprio governo, si erano organizzati in diversi movimenti indigeni iniziando una lunga serie di rivendicazioni territoriali. Hanno atteso oltre trent'anni per vedere realizzato l'antico sogno, tornare a essere uomini (Inuit) liberi, soprattutto di scegliersi la propria vita, non sentirsi più apostrofati con il nome di eschimesi (mangiatori di carne cruda), una denominazione dispregiativa coniata dalle tribù algonchine dell'America settentrionale e poi recuperata dai primi esploratori europei. Questi ultimi diedero l'avvio ad una colonizzazione durissima che ha cancellato, per molto tempo, una storia e una cultura ricca e complessa di oltre cinquemila anni, erodendone i sistemi politici, economici, sociali e religiosi. Come ogni altro Stato anche quello del Nunavut deve affrontare sfide enormi, ma ad esso già guardano con interesse molti popoli autoctoni del pianeta che rivendicano l'autonomia dalle nazioni in cui essi vivono, assoggettati o incorporati con la forza in Stati alieni che li trattano come intrusi. "Pensando alla mia infanzia e alle cose che sono accadute da allora ad oggi, mi sento come se stessi guardando una rivoluzione al rallentatore" racconta John Amagoalik, figura centrale del movimento Inuit per l'autonomia, in una preziosa testimonianza raccolta in "Congratulazioni Nunavut! Sortite antropologiche nella terra degli Inuit", un libro straordinario di Cesare Pitto, docente di Antropologia culturale all'Università della Calabria. Grande studioso e amico del popolo artico, l'autore ha assistito al battesimo del Nunavut, e nel suo libro, un work in progress che promette ulteriori sviluppi, propone numerosi contributi storici, antropologici, culturali e politici, che ripercorrono il viaggio degli Inuit verso l'autonomia e la propria identità.
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In allegato al libro i video-documentari di Cesare Pitto:
Nunatsiaq (La Terra meravigliosa) 1997 - Quviassutighivassi Nunavut! (Congratulazioni Nunavut) 2000
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Titolo: Congratulazioni Nunavut! Sortite antropologhiche nella terra degli Inuit.
Autore: Cesare Pitto - Università della Calabria
Editore: Centro Editoriale e Libraio
2003, pagine 190.
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lunedì 27 aprile 2009

PESCI NOSTRANI E PESCI STRANIERI

Non tutte le specie ittiche presenti nel Lario sono “autoctone”, cioè originarie del bacino lariano e ivi presenti sin dai tempi geologici. Molte di esse sono state immesse dall’uomo in tempi relativamente recenti, alcune in modo del tutto casuale e involontario, altre con la precisa volontà di arricchire e rendere più pregiata la fauna ittica locale. Tra queste ultime, spiccano per importanza il Lavarello e la Bondella, introdotte nel Lario in tempi diversi e ora ritenute in assoluto le specie più importanti dell’economia della pesca lariana.
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Lavarello del Lario

Il primo Coregone a comparire nelle acque del lago fu senza dubbio un Lavarello. Già nel 1861 il De Filippi sperimentò infatti l’immissione di avannotti di Blaufelchen (Coregonus wartmanni coeruleus), originari del lago di Costanza. Nonostante il risultato del tutto negativo che fece seguito a questo primo tentativo, all’inizio del 1885 circa 500.000 uova fecondate di Coregonus wartmanni coeruleus vennero inviate dal lago di Costanza all’incubatoio di Fiumelatte, sul Lario lecchese. La schiusa delle uova ebbe luogo e gli avannotti vennero tutti immessi nel lago nel tratto di costa di Bellano. Il 19 ottobre di quell’anno venne catturato il primo Coregone del Lario, lungo 11 cm. Prima della fine del 1885 furono catturati altri quarantadue giovani coregoni, a conferma che l’introduzione della nuova specie stava dando i frutti sperati. Nel quinquennio successivo il Pavesi effettuò altre tre immissioni di avannotti, sempre provenienti da uova del lago di Costanza. Con ogni probabilità furono allora importate, oltre a uova di Blaufelchen, anche uova di un altro Coregone presente nel lago svizzero, denominato Weissfelchen (Coregonus schinzi helveticus). Nel lario le due forme finirono per ibridarsi e negli anni successivi la possibilità di distinzione fra le due specie di Coregone venne a mancare. Già nel 1933 R. Monti affermava infatti che i “coregoni italiani appartengono a una specie naturale unica” non avendo rilevato alcuna differenza a livello cromosomico. L’attuale Lavarello (Coregonus “forma hybrida”) è pertanto considerato un ibrido fra le due specie originarie. Il successo delle introduzioni di Lavarello fu notevole: già nel 1897 il pescato raggiunse le 12 tonnellate e si mantenne in seguito elevato sino agli anni ’60, quando le catture subirono un forte calo, in relazione al peggioramento delle condizioni ambientali del lago.

Bondella

Si decise allora l’immissione di una seconda specie di Coregone, più resistente agli elevati valori di trofia che si stavano instaurando nel bacino lariano. Nel 1970 furono così immessi 500.000 avannotti di Coregunus macrophtalmus, denominato comunemente Bondella, provenienti dal lago di Neuchatel. L’immissione fu coronata da immediato successo, al punto che nel Lario la Bondella è ora la specie predominante, rappresentando circa il 70% dei coregoni nell’asse Colico-Lecco e il 95% nel ramo di Como. Le differenze morfologiche tra le due specie di Coregone sono molto limitate e a un esame superficiale la distinzione tra Bondella e Lavarello è un’impresa difficile anche per gli addetti ai lavori, come gli ittiologi e i pescatori di professione. Più nettamente differenziate risultano invece essere altre caratteristiche biologiche, come l’accrescimento e l’habitat riproduttivo. Il Lavarello cresce più velocemente e raggiunge taglie più elevate; non è infrequente infatti riscontrare catture di lavarelli superiori al mezzo chilo di peso, mentre la Bondella ha una crescita più lenta e, nella ristorazione locale, costituisce il classico pesce “da porzione”. Il Lavarello inoltre depone le uova nel mese di Dicembre, sui dolci fondali sassosi e ghiaiosi che si trovano in prossimità delle sponde, mentre la Bondella si riproduce in Gennaio a profondità (40-100 metri) ben maggiori.

Salmerino alpino

Tra le specie introdotte allo scopo di accrescere il pregio dell’ittiofauna lariana, non possiamo dimenticare il Salmerino alpino (Salvelinus alpinus), proveniente dal lago di Zug (Svizzera). Immesso dapprima con successo nel lago di Lugano (1895), è stato da qui introdotto a partire dal 1910 nel lago Maggiore e nel Lario. La colonizzazione del Lario da parte del Salmerino fu probabilmente più lenta, a causa della limitata fecondità della specie. Basti dire che una femmina di Salmerino pesante un chilogrammo è in grado di deporre circa duemila uova, contro le quarantamila deposte da una femmina di Lavarello di uguali dimensioni. Le modificazioni ambientali intercorse dall’uomo a partire dagli anni settanta hanno purtroppo rallentato l’espansione del Salmerino; lo scadimento della qualità dell’acqua e la competizione spaziale e alimentare con la Bondella ha infatti causato una drastica riduzione di questo salmonide, al punto che attualmente è considerabile come specie rara.

Persico sole
Tra le specie “straniere” introdotte nel Lario con modalità ignote e senza alcun supporto scientifico ricordiamo solo il Persico sole (Lepomis gibbosus), noto a tutti per la sua vivacissima colorazione. La data precisa del suo arrivo al Nord America non è conosciuta, anche se risale senza dubbio agli anni del dopoguerra. Il “gobbo” – così è noto il Persico sole tra i pescatori lariani – riveste comunque un interesse marginale all’interno del popolamento ittico lariano. La sua proverbiale voracità lo rende facilmente catturabile e per questo la sua inconfondibile livrea è spesso riconoscibile nel cestino dei pescatori principianti.

Carassio

Pesce gattoFortunatamente, il fenomeno dell’immissione “fuorilegge” di nuove specie non ha alterato sensibilmente la composizione della fauna ittica del Lario e non ha apportato i gravissimi danni che in altri corpi d’acqua appaiono invece in tutta la loro evidenza. Il Carassio (Carassius carassius), il Pesce gatto (Ictalorus melas) e altre specie “straniere” infestanti – il cui numero è in continuo e allarmante aumento – hanno già compromesso l’equilibrio dell’ittiofauna di molte acque italiane e rappresentano un problema grave e di difficile soluzione. L’introduzione di nuove specie ittiche in un ecosistema acquatico rappresenta sempre un intervento delicato che richiede conoscenze specifiche e può creare gravi danni. E’ pertanto indispensabile che tali operazioni vengono effettuate sotto il controllo dei tecnici del settore. Solo in questo modo è possibile ripetere le felicissime e “illuminate” esperienze dei Coregoni e dei Salmerini del Lario.

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giovedì 23 aprile 2009

I POPOLI DEL GRANDE NORD E LA LORO LINGUA


I popoli dell’Artico, di nazionalità diverse, occupano ciascuno un diverso territorio. Un tempo nomadi, oggi sono quasi tutti sedentarizzati e vivono in villaggi o città, anche se molti di loro tornano regolarmente sul ghiaccio per preservare le loro tradizioni.


Inuit

I circa 150.000 Inuit vivono in Alaska, in Canada (soprattutto nel Nunavut) e in Groenlandia. Un tempo erano chiamati “eskimos” (eschimesi) dagli occidentali uomini bianchi. Questo dispregiativo significava “colui che si nutre di carne cruda”. Oggi si fanno chiamare “Inuit”, che significa semplicemente “la gente”. Tutti i piccoli Inuit studiano l’inglese o il danese a scuola ma in famiglia praticano l’Inuktitut, la lingua del loro popolo, il cui alfabeto è stato ammodernato per renderlo compatibile con l’informatica.


Sami

I Sami, popolazione autoctona della Scandinavia, sono distribuiti fra Norvegia, Svezia e Finlandia e la penisola di Kola, in Russia. Secondo le stime, dovrebbero essere 70.000. I giovani imparano il Sami, una lingua ugro-finnica.

Dolgani
Da menzionare anche i Dolgani, di cui sono state recensite in Siberia 26 etnie, che sarebbero circa 7.000 nella penisola di Taimyr, ma soltano poche centinaia di loro hanno mantenuto abitudini nomadiche. I bambini imparano il russo ma parlano anche la lingua Dolgana.
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lunedì 20 aprile 2009

IL LAGO DI PUSIANO



Il lago di Pusiano offre uno degli spettacoli naturali più belli di tutta la Brianza, sia che lo si osservi dall’alto – salendo lungo il Monte Cornizzolo (1240 m.) che lo sovrasta da Nord specchiandosi nelle sue acque – sia che lo si guardi dalle sponde, sulle quali si susseguono i sette comuni rivieraschi che gli fanno corona. Come tutti i laghi briantei, il Pusiano mostra le caratteristiche tipiche di un bacino di origine glaciale. Alla sua formazione, esso costituiva con il lago di Alserio un unico corpo d’acqua, che solo in epoche più recenti si è separato, a causa dell’accumolo dei sedimenti portati dal fiume Lambro, nonché dall’attività umana di bonifica. Il principale imissario, il Lambrone, si getta nel lago presso il lido di Moiana; da lì, a poche centinaia di metri di distanza, esce l’unico emissario che, arricchitosi a Pontenuovo con le acque provenienti dal lago di Alserio e dalle varie roggie del Pian d’Erba, ricostituisce il Lambro: così il fiume riprende il suo corso regolare verso Monza e la bassa pianura. Le sponde del lago di Pusiano conservano ancora abbastanza bene il loro aspetto naturale, con la caratteristica successione delle fasce vegetazionali. Tra queste il canneto, che delinea quasi tutto il perimetro del lago, estendendosi per lunghi tratti soprattutto nelle zone rivierasche dei comuni di Cesana Brianza e di Merone. Il lago di Pusiano è l’unico dei briantei ad avere un’isola: l’isola dei Cipressi. E’ una collina naturale, originariamente appuntita, ma nobilitata in epoca medioevale da due grandi muraglioni che circoscrivono la vetta formando un piccolo altopiano, un terrapieno. Ha un’estensione di 17.000 mq. Sul versante nord della collina e sulla punta a est vi sono boschi mentre il resto è prato. Ci sono inoltre una sessantina di cipressi caratteristica che ha dato il nome all’isola. L’isola è frequentata da diversi volatili e il lago è particolarmente pescoso attorno all’isola, grazie alle gigantesche piante che ogni tanto il vento e la vecchiaia fanno cadere in acqua, creando un habitat adatto per la riproduzione di pesci. L’isola à di proprietà privata.

Alcune curiosità sul lago di Pusiano:
- Solo dal 1922 il lago di Pusiano è di proprietà demaniale. Prima fu sempre di proprietà privata fin dal 1314. I vari proprietari che si susseguirono furono, per citarne alcuni: l’arcivescovo di Milano, i marchesi Carpani, il Viceré di Italia Eugenio Beauharnais, il comune di Bosisio
- Fino a cinquant’anni fa si svolgevano antichi lavori consacrati alla tradizione, come il taglio delle canne di palude e l’estrazione della sabbia e della ghiaia, l’estrazione della torba e ovviamente la pesca.
- Il lago è integralmente compreso entro i confini del Parco regionale Naturale della Valle del Lambro.


Il lago di Pusiano in cifre.
Altitudine media: 259 m slm
Superficie: 4,9 kmq
Perimetro: 10,7 km
Profondità media: 14,03 m
Profondità massima: 24,3 m
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Foto del caro amico Riccardo Agretti.
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giovedì 16 aprile 2009

LO SCAFO DEL KAYAK DA MARE


Forma, dimensioni e proporzioni dello scafo sono di importanza vitale ai fini della stabilità, della manovrabilità e della velocità dell’imbarcazione. Un buono scafo deve essere lungo almeno 5 metri fuori tutto e largo 50-60 cm., inoltre deve essere progettato in modo tale da garantire al kayak un’ottima direzionabilità col mare al giardinetto, cioè a tre quarti di poppa.


il Baidarka di Alessandro

Un fattore determinante ai fini della velocità con acqua agitata è la forma della prua, che può essere di due tipi: voluminosa e ad elevata galleggiabilità, tale da non affondare nelle onde di normali dimensioni; stretta e affilata, per tagliare i marosi senza però affondarvi. Il primo tipo funziona molto bene, basta che le onde non siano troppo alte, perché in tal caso la prua è costretta a impattare violentemente sulla superficie dell’acqua, che viene così proiettata con forza ai lati dello scafo, sottoponendo il kayaker a una doccia continua. Il secondo tipo produce un minimo spostamento d’acqua e ha una conformazione del ponte anteriore studiata in modo da permettere un’uscita molto asciutta dall’onda. L’efficacia di una prua di questo tipo non sta quindi nella sua galleggiabilità, bensì nelle sue qualità dinamiche. Qualunque tipo di prua si scelga, questa deve essere possibilmente slanciata, così da minimizzare qualsiasi “effetto draga” dovuto alla separazione dell’acqua al passaggio dello scafo.

lunedì 13 aprile 2009

LIBRI - LA SCOMPARSA DELL’EREBUS



Il 19 maggio 1845, l'Erebus e la Terror, due velieri agli ordini di Sir John Franklin e di Francis Crozier, salpano dall'Inghilterra alla ricerca del leggendario Passaggio a Nordovest; verranno ritrovati anni dopo intrappolati nel ghiaccio artico. Sulla base di un documentato episodio storico, Simmons racconta, con la consueta forza immaginativa, un'allucinante avventura. Gli equipaggi delle due navi, bloccati nella morsa del freddo e sprofondati nel silenzio spezzato solo dagli scricchiolii del ghiaccio e dalle tempeste di fulmini, si ritrovano a lottare contro gli elementi, ma anche contro la disperazione e la follia, sempre pronta a insinuarsi nelle menti dei marinai dispersi. Quando, alla morte di Franklin, prende il comando della spedizione Crozier, capitano della Terror, il terzo inverno sulla banchisa è vicino e i superstiti si preparano ad affrontarlo nella speranza di resistere fino al disgelo. La situazione è prossima al disastro: le provviste scarseggiano e lo scorbuto comincia a mietere vittime. Tra ammutinamenti, crisi ed episodi di cannibalismo, l'isolamento non sembra però la minaccia peggiore. Mentre una giovane inuit muta, soprannominata Lady Silence, si muove indisturbata sulla Terror e sparisce per giorni, insensibile a freddo e fame, sembra fare la sua apparizione una creatura sconosciuta, intelligente e malevola, che si aggira tra i ghiacci e dà la caccia agli uomini dell'equipaggio, uccidendoli a uno a uno... Dan Simmons, ancora una volta, sublima i suoi lettori con un eccezionale romanzo storico d’avventura. Non ci sono parole per l’audacia che l’autore mette nella scelta dell’argomento, o meglio degli argomenti, con cui tesse la trama di un libro di più di 700 pagine ma che non pesa affatto di eccessive descrizioni o inutili lungaggini. In un momento in cui la letteratura del fantastico ha perso la sua guida, Stephen King, che ormai a appeso “la penna al chiodo”, Simmons ci illumina con un lavoro che può essere definito una pietra miliare nel suo genere. L’esplorazione del polo nord alla ricerca del passaggio a nord-ovest da parte di Sir John Franklin nel 1845, il mito degli Inuit e, in questo già documentatissimo resoconto storico, l’inserimento del soprannaturale rende, “La scomparsa dell’Erebus” un esperimento riuscito perfettamente. L’autore sceglie di raccontare gli avvenimenti con una narrazione multipla, attraverso diversi punti di vista utilizzando prima e terza persona e, non pago, inserendo anche diaristica e lettere, il tutto percorrendo il “tempo letterario” attraverso flash-back e flash-forward e, come se non fosse abbastanza, condito da un’enormità di riferimenti letterari che rende la lettura, già piacevolissima, un fiore all’occhiello non solo per gli amanti del genere ma anche per i cultori della letteratura in generale. Dan Simmons ci delizia con una scrittura “antica”, fuori dal tempo, ci porta per mano in un mondo che non ci appartiene ma che, pagina dopo pagina, diventa immagine nitida intorno a noi. Racconta, descrive e crea con geniale facilità; decine e decine di personaggi si intrecciano prima sui ponti delle navi poi sul pack artico: figure memorabili come Crozier o il Mostro “mitologico” che egli stessi crea, ma tanti altri ne andrebbero citati, sembrano veramente prender vita da storie e leggende del 1800. “The Terror”, questo il titolo originale del romanzo (inspiegabilmente tradotto con “La Scomparsa dell’Erebus”), è un assalto sensoriale che coinvolge, senza lasciare tregua, il lettore: scene di lotta e sesso, cannibalismo, paranoia, lotta con la natura, folklore, microsociologia, psicologia etc. è ciò che aspetta chi vorrà immergersi nelle 784 pagine del romanzo. Straordinario è anche il finale, merce rara nel genere fantastico, che intreccia la mitologia Inuit ad una fine già scritta dalla storia ma che non risulta mai banale o scontata. Che dire…Basterebbe leggere le due pagine di ringraziamenti e bibliografia per capire il lavoro compiuto da questo autore per portare a compimento questo capolavoro; scene come quelle della festa sui ghiacci inspirata alla Morte Rossa di Edgar Allan Poe, la citazione dal libro “Il Leviatano” o i riferimenti a Moby Dick e William Shakespeare bastano da soli ad annoverare questo romanzo tra gli “indispensabili” nella letteratura fantasy contemporanea. Dan Simmons è nato nel 1948 ed è considerato uno dei massimi narratori americani di science fiction, fantasy e horror. “La scomparsa dell’Erebus” è il suo tredicesimo romanzo, preceduto da: Il canto di Kali (1985), Hyperion (1989), Danza macabra (1989), La caduta di Hyperion (1990), L’estate della paura (1991), Gli uomini vuoti (1995) , I figli della paura (1995), Endymion (1997), Il grande amante (1998), Vulcano (1998) e Il risveglio di Endymion (1999). Ha poi iniziato la saga di Ilium: Ilium. L’assedio (2003), Ilium. La rivolta (2004), Olympos. La guerra degli immortali (2005), Olympos. L’attacco dei voynix (2007).

Titolo: “La scomparsa dell’Erebus”
Autore: Dan Simmons
Editore: Mondadori
Prezzo: 20,00 eur
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Segnalato dall'amico Marco "EKO" Ferrario.
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giovedì 9 aprile 2009

IL POPOLAMENTO ITTICO ATTUALE DEL LARIO

Il ramo lecchese del Lario visto dal monte Moregallo
La morfologia della cuvetta lacustre del Lario, con le ripide sponde subito degradanti verso grandi profondità, determina una grande estensione della zona pelagica a discapito di una zona litorale molto ridotta e circoscritta.

Lavarello

Ne consegue che il popolamento ittico è in gran parte costituito dalla specie pelagiche, quali i coregoni – presenti con le due specie Lavarello (Coregonus spp.) e Bondella (Coregonus macrophtalmus), l’Agone (Alosa fallax lacustris) e l’Alborella (Alburnus alburnus alborella). Con l’eccezione dell’Alborella, che si spinge nella zona litorale anche per motivi alimentari, queste specie trascorrono gran parte della loro esistenza in “mezzo al lago”, cibandosi di zooplancton, e dalle rive la loro pur abbondate presenza è avvertibile solo durante il periodo riproduttivo, quando gli esemplari maturi si portano sui bassi fondali per la deposizione delle uova. La Bondella, che anche per la riproduzione ha scelto i fondali profondi fino a 50 metri, è visibile da terra solo grazie alle quotidiane e copiose catture a opera dei pescatori di professione.

Tinca

Le specie ittiche più legate all’ambiente litorale, estremamente ridotto, raggiungono localmente densità molto elevate ma, nell’insieme, costituiscono una componente largamente minoritaria dell’ittifauna lacustre. Molte delle specie caratteristiche della zona litorale del Lario, appartengono alla famiglia dei ciprinidi, come il Triotto (Rutilus rubilio), il Cavedano (Leuciscus cephalus cabeda), il Pigo (Rutilus pigus), la Scardola (Scardinius eritrophtalmus) e la Tinca (Tinca tinca).

Triotto

Tra i predatori locali, spicca per importanza il Pesce persico (Perca fluviatilis), mentre il Luccio (Esox lucius) non raggiunge popolazioni consistenti a causa dell’habitat poco congeniale alle sue esigenze. E’ soprattutto la scarsità di vegetazione acquatica sommersa (unitamente alla ripidità delle sponde) a rendere occasionale la presenza del Luccio nel Lario. Le piante acquatiche costituiscono infatti il substrato naturale per la deposizione delle uova e l’ideale territorio di caccia del Luccio, che non a caso raggiunge densità decisamente più elevate nell’estrema porzione settentrionale del Lago, nel canale della Mera e nel lago di Garlate, dove sono tuttora presenti vaste aree di canneto.

Luccio

L’attuale popolamento ittico del Lario è rappresentato dalle 23 specie riportate nella Tabella riportata qua sotto. Non sono comprese in elenco alcune specie che possono essere saltuariamente rinvenute nel lago ma che non possono essere considerate come rappresentative della fauna ittica lariana. Tra esse ricordiamo il Temolo (Thymallus thymallus) che talvolta abbandona le acque correnti dell’Adda immissario, in cui è abbondantemente presente, e si avventura nel lago, per poi risalire il tratto terminale dell’acque fredde e ossigenate.

Pesce gatto

Provenienti da qualche scriteriata immissione, il Carassio (Carassius Carassius) e il Pesce gatto (Ictalorus melas) hanno fatto recentemente la loro comparsa nelle zone litorali del Lario. La loro presenza, trattandosi di specie infestanti e di pregio pressoché nullo, è fortunatamente ancora molto rara. Con ancora minore frequenza è possibile avvistare qualche raro esemplare di Persico trota (Micropterus salmoides), pesce predatore tipico dei bassi fondali ricchi di vegetazione e pertanto non molto attratto dalle ripide sponde del Lario.

Trota fario

D’estate il Lario è diviso in due zone: uno strato caldo e superficiale (epilimnio, da 0 a 15 metri) ed uno strato freddo e profondo (ipolimnio, da 20 metri al fondo) separati da un sottile strato (metlimnio, da 15 a 20 metri) caratterizzato da un brusco salto di temperatura. In questa stagione i pesci che non sopportano temperature elevate (trote e coregoni) sono costretti a trovare rifugio nell’ipolimnio.


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lunedì 6 aprile 2009

LE REGIONI DEL GRANDE NORD

Nell’emisfero Nord, il Mar Glaciale Artico è davvero degno del nome che porta. Una parte delle sue acque superficiali, sottoposte a temperature che possono precipitare addirittura a –70°C, è costantemente gelata. La banchisa si forma in superficie e ha uno spessore di alcuni metri. Questo ghiaccio marino va alla deriva sotto forma di enormi lastre che si schiantano sotto l’azione delle correnti. Il polo, che si trova a 90° di latitudine Nord (90° N), è al centro di questa banchisa, ossia in mezzo al mare. Si tratta, a dire il vero, di un punto geografico “virtuale”, utilizzato come riferimento nella cartografia terrestre.

Quando ci allontaniamo dal polo verso il circolo polare (che rappresenta la linea oltre la quale il sole non sorge in inverno), compaiono le regioni circumpolari, che circondano l’Oceano Artico e occupano una superficie di circa 7.500.000 km2. Si tratta sostanzialmente dell’Alaska, del Grande Nord Canadese, della Lapponia scandinava e della Siberia, cui si aggiungono la Groenlandia, la più grande isola del mondo (2.1600.000 km2) e altre isole minori come quelle della Regina Elisabetta, l’arcipelago delle Novaja Zemlja e lo Spitzberg.

I paesi del Grande Nord presentano alcune analogie. Per la loro vicinanza al polo, hanno in comune la notte polare in inverno (quando il sole non sorge) e il giorno polare d’estate (quando il sole non tramonta). Ovunque la vegetazione è rara a causa del freddo e della neve che impediscono alle piante di spuntare. Fa eccezione la tundra, composta da muschi, licheni, erica e piante erbacee.

giovedì 2 aprile 2009

GRIGNE, PIANURA PADANA, LARIO E IL CLIMA

La pianura Padana vista dalle Prealpi lecchesi
Meno di una quindicina di chilometri separa le sommità rocciose delle Grigne (2410 mslm) e le acque del Lario dalla pianura Padana, fatto che le rende a tutti gli effetti un dominio del più schietto clima prealpino. Questo significa soprattutto una elevata umidità, dovuta sia all’alimentazione della pianura, dove la circolazione dei venti è sempre un po’ oziosa e si forma una massa d’aria piuttosto stagnante, sia all’attiva condensazione favorita dal sollevamento repentino delle correnti a quote attorno ai 2000 metri. In inverno, durante le situazioni di alta pressione, l’umidità è di frequente confinata alle quote più basse: non è raro lasciare Milano sotto un denso e freddo nebbione ed emergere al sole appena si oltrepassano i 500-700 metri. Allora le vette calcaree delle Grigne diventano un superbo balcone tiepido e luminoso, affacciato sul mare di strati (le nebbie) che ricopre la pianura Padana. D’estate, con il calore che anima l’atmosfera di movimenti verticali, l’umidità risale i pendii e genera cumuli, foschie e nebbie anche alle quote più alte, rovina i panorami e genera temporali pomeridiani, talora anche violenti.
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Grignetta vista dal lago di Garlate

Che le Prealpi Lombarde siano esposte a precipitazioni abbondanti lo confermano i dati del pluviometro di Lecco, che totalizza circa 1400 mm annui con i valori massimi dell’anno relativi ai mesi primaverili ed estivi: quasi 200 mm in maggio (in tredici giorni) e valori sempre superiori ai 100 mm da aprile a novembre, con almeno sette giorni di pioggia al mese. E piogge più abbondanti rispetto al fondovalle lecchese, anche prossime ai 2000 mm, interessano i versanti delle Grigne direttamente esposti a i venti umidi meridionali. Motivo per cui prati e boschi conservano un verde brillante per tutta l’estate, stagione che tuttavia non manca di giornate perfettamente serene, soprattutto quando spirano deboli venti asciutti da nord. Il maggior soleggiamento relativo si ha invece in inverno, periodo che mostra le precipitazioni più contenute, con minimo di 50 mm in gennaio e febbraio.

Grigne viste dal Triangolo Lariano

La neve sulle Grigne è una presenza importante nei mesi invernali, da novembre ad aprile, ma sebbene non manchino nevicate abbondanti, anche superiori a un metro di spessore in ventiquattrore, la durata del manto nevoso sui versanti ben esposti al sole è modesta, anche a causa delle quote non molto elevate, Pure la temperatura risente dell’influenza padana, con valori non estremi: a 200 metri il valore medio annuale si aggira sui 2 gradi, una notte d’inverno può far scendere il termometro a meno 20 ma se la giornata è serena, i versanti sud si intiepidiscono rapidamente. D’estate, l’ombreggiamento causato dai cumuli può spesso mantenere temperature moderate anche quando la pianura ribolle. Ancora un accenno al vento, presenza perlopiù discreta e limitata alle brezze giornaliere lacustri (il mattutino Tivano da Nord, la pomeridiana Breva da Sud) durante il semestre estivo, ma che in qualche giorno dell’anno, specie in inverno, si sfoga in robuste tempeste di Foehn. In quei giorni le Grigne sono spesso fuori dal muro di nubi che avvolge le Alpi interne, e, anche se sferzate da raffiche oltre i 100 km/h, offrono panorami grandiosi fino agli Appennini.

Grignetta vista dal Lago di Garlate