"Vorrei imparare dal vento a respirare, dalla pioggia a cadere,
dalla corrente a portare le cose dove non vogliono andare,
e avere la pazienza delle onde di andare e venire, ricominciare a fluire..."
(Tiromancino)

lunedì 30 marzo 2009

RESISTENZA E PESO DEL KAYAK DA MARE

VALLEY Q-BOAT

Entrambi i ponti del kayak da mare devono essere tanto robusti da sopportare le forti sollecitazioni cui vengono sottoposti nelle manovre di salvataggio o per reggere il peso di un compagno infortunato. Situazioni di questo tipo, estreme ma sempre possibili, mettono indubbiamente in evidenza i difetti di progettazione e di costruzione dell’imbarcazione. Negli ultimi anni, soprattutto da parte dei costruttori nordamericani, si è posta molta enfasi sulla leggerezza degli scafi, trascurando altri aspetti molto importanti. Il risultato è che un gran numero di kayak in commercio può a malapena affrontare le manovre di salvataggio e di recupero in mare. Con l’introduzione di nuovi materiali ad alte prestazioni, è stato comunque possibile costruire kayak leggeri senza sacrificare le indispensabili doti di robustezza e rigidità. Un consiglio: quando comprate un kayak, assicuratevi che il modello sia stato collaudato in condizioni d’uso adeguate.

POINT 65° N XP e FIBERLINE GENESIS 5000

Un altro requisito da considerare, quando si acquista un kayak, è il peso dello scafo. Un kayak spinto a forte velocità sulla cresta di un’onda può trovarsi con svariati metri di scafo sospesi in aria. Se viene investito da un forte vento al traverso, è molto facile che il kayaker ne perda il controllo. Per essere affidabile con vento forte e acqua mossa, un buon kayak da mare deve avere un peso a vuoto tra i 22 e i 27 kg. Naturalmente si può zavorrare in qualche modo la barca per renderla più stabile e controllabile in condizioni difficili, stando però attenti che la zavorra sia ben fissata e non se ne vada in giro per lo scafo. Consigliamo di utilizzare delle sacche stagne, lunghe e strette, facilmente assicurabili per mezzo di elastici al fondo dello scafo. La zavorra va stivata poco prima della partenza e distribuita in maniera uniforme nei gavoni.

QAJAQ AQUA E POINT 65 N° XP

giovedì 26 marzo 2009

LIBRI - INUIT E POPOLI DEL GHIACCIO

Curato da Gabriella A. Massa, il volume intende fornire un quadro artistico, antropologico, etnografico, storico e naturalistico-ambientale delle popolazioni che vivono nell'estremo Nord del nostro pianeta, attraverso una selezione di reperti provenienti da Siberia, Alaska, Canada, Groenlandia e Nord Europa (appartenenti alle collezioni del Museo Nazionale Preistorico Etnografico "L. Pigorini" di Roma, il Museo Etnografico Polare "S. Zavatti" di Fermo, l'Archivio di Stato di Torino, le Università degli Studi di Firenze e di Torino, oltre che dal Musée de la Civilisation du Québec e l'Association des Francophones du Nunavut). La sezione Nunacarte, Opere di artisti piemontesi su carta del Nunavut - curata da Ivana Mulatero - presenta una selezione di lavori inediti di artisti di spicco realizzati su carta esquimese, appositamente importata dal Canada.

Inuit e Popoli del Ghiaccio - Gabriella A. Massa - 184 pagine - 2005 - Edito da Skira.
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lunedì 23 marzo 2009

IL FISTIONE TURCO, LA TESTA GROSSA DEL LAGO



Viene a svernare sui nostri laghi ed è facile quindi avvistarla nelle nostre escursioni invernali in kayak. Appartiene all’ordine Anseriformes, famiglia Anatidae, uccelli acquatici conosciuti come anatre. E’ inclusa nel gruppo delle “anatre tuffatrici”, che si immergono totalmente in acqua per cacciare prede in genere animali. Il suo nome scientifico è Netta rufina.

Di dimensioni corporee intermedie (55 cm), è riconoscibile per la forma del corpo piuttosto tozza e la testa grossa. Il maschio è caratterizzato dal becco rosso, la testa di colore castano intenso con il vertice più chiaro e un ciuffo erettile, il collo e il petto neri e il corpo bianco e marrone; la femmina è marroncina, con le guance biancastre in netto contrasto con il capo scuro. Il maschio in eclisse è simile alla femmina, ad eccezione della presenza della cresta, del becco e degli occhi di colore rosso. Il volo è veloce e a media quota, con rapidi battiti d’ala e pochi cambiamenti di direzione. E’ una specie gregaria, che forma anche grandi stormi molto serrati.

In riproduzione abita ambienti di acqua dolce ricchi di vegetazione e lagune salmastre; in inverno è meno legata a particolari tipi di habitat acquatici. Si immerge tra 2 e 4 m ed è in grado di fermarsi sott’acqua per 30 secondi, ma rimane anche in superficie per nutrirsi essenzialmente di vegetali acquatici. In Italia è migratore regolare, con occasionali segnalazioni di nidificazione; in Lombardia è migratore e svernante con pochi individui, con osservazioni isolate o al più gruppetti di 10-20. Il Fistione turco si tuffa meno delle altre specie “tuffatrici”; lo si osserva spesso in superficie, mentre immerge la testa o si capovolge.


giovedì 19 marzo 2009

UNA BANCHISA INSTABILE

La banchisa si forma sulla superficie dell’Oceano Artico a partire da una temperatura di –1,8°C . Questa crosta di ghiaccio che ricopre il mare è costituita da lastre che mutano continuamente per effetto delle correnti e dei venti. La banchisa presenta talvolta blocchi caotici denominati, in gergo scientifico, “creste di compressione”, che si formano quando più lastre di ghiaccio si scontrano, si accavallano e si innalzano le une contro le altre. Queste barriere, alte 10 metri, si stendono per vari chilometri. Ma la banchisa può essere anche liscia e sufficientemente spessa (3-4 metri). Talvolta si frantuma, creando canali e aprendo vie d’acqua. In tutti i casi, avventurarsi in questo universo instabile richiede molta esperienza e cautela perché il paesaggio muta rapidamente. In estate, il rialzo delle temperature fa sciogliere la banchisa, che diminuisce di spessore per formare il “pack”. La sua superficie varia dunque varia dunque a seconda delle stagioni: in inverno ricopre quasi tutto l’Oceano Artico, mentre in estate occupa “appena” 5 milioni di chilometri quadri. Il kayak viene praticato d’estate e permette agli Inuit di spostarsi attraverso il pack.

martedì 17 marzo 2009

IL LARIO E L’INQUINAMENTO

Quando 15.000 anni fa il grande ghiacciaio, respinto dall’avvento di un clima più temperato, abbandonò le valli lariane e iniziò la ritirata verso le cime più alte della Valtellina e della Val Chiavenna, il profondissimo solco entro cui si era incanalato il suo fronte principale fu invaso dalle acque. Si formò così il Lario, che ebbe in dono acque limpidissime, nelle quali brillavano le grosse sagome argentee delle trote lacustri. La natura riservò a lungo al Lario un trattamento di favore: la grande profondità del bacino e il continuo apporto dei freddi torrenti di origine glaciale consentirono alle acque del lago di mantenersi trasparenti e ossigenate. Contrariamente ai bacini di piccole dimensioni e di modeste profondità, che sono soggetti a “rapide” modificazioni naturali comportanti anche un certo “scadimento” della qualità delle proprie acque, il Lario dovette attendere il pesante intervento dell’uomo per mostrare i primi segni di decadenza. E il pesante intervento dell’uomo non è, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, un evento recente.



Già nel bollettino della pesca del 1910 si legge infatti che le trote non risalivano più i torrenti Marrone, Albano e Liro, nelle quali numerose fabbriche di carta o stabilimenti metallurgici immettevano scarichi inquinanti. A. Ricordi nel suo libro del 1910 cita tra le cause di impoverimento della pesca del Lario un fenomeno strano che osservava da qualche anno: “Una fanghiglia algosa, verde, inquina interi tratti di lago. Questa strana vegetazione fu studiata dal prof. Forel di Morges che stabilì essere un’alga, la Tabularia flocculosa”. Anche R. Monti descrisse un fenomeno di fioritura algale nel lago di Como, causata da Microcystis aeruginosa, che raggiunse il suo massimo tra il 20 e il 25 agosto 1925: “Le acque non più trasparenti come di consueto, appaiono torbide cosicché i limiti di visibilità del piatto di Secchi (strumento utilizzato per misurare la trasparenza dell’acqua) non andarono oltre i 4 metri”. Successivamente, Baldi, Pirocchi e Tonolli (1947) all’interno di uno studio sul fitoplancton del primo bacino com’asco segnalarono una fioritura di Diatomea fragilaria in data 10 settembre 1946.



In queste segnalazioni non certo recenti è facile riconoscere i sintomi della “malattia” più comune dei laghi italiani, l’eutrofizzazione, causata dall’eccessivo apporto di nutrienti nelle acque, in particolare fosforo e azoto. Se – come abbiamo visto – i primi segnali dell’alterazione dell’equilibrio del lago risalgono ai primi decenni del secolo, è solo a partire dagli anni ’50 che il processo di eutrofizzazione subì una forte accelerazione. In seguito al forte sviluppo demografico e al miglioramento della qualità della vita, gli scarichi fognari che pervenivano al Lario direttamente o attraverso gli immissari, aumentarono a dismisura e accrebbero il proprio carico inquinante. La concentrazione di fosforo nelle acque del lago passò direttamente dai 20 ug/l, volare medio rilevato nel periodo primaverile all’inizio degli anni ’60 (Vollenweider, 1962), ai 51 ug/l dell’aprile 1971 (Braga, 1972). Alla fine degli anni ’70 tale concentrazione raggiunse i valori storicamente più elevati, assestandosi intorno ai 70-80 ug/l. Se si considera che, in assenza di apporti umani, il fosforo avrebbe nel Lario una concentrazione naturale pari a circa 10 ug/l, ne risulta che trenta anni fa si raggiunsero valori 7-8 volte superiori, tali da destare serissime preoccupazioni in merito alla futura vivibilità del lago. Non va inoltre dimenticato che negli anni ’60 e ’70 il Lario riceveva anche numerosi scarichi industriali, il cui impatto sulle qualità delle acque spesso consisteva nell’immissione di vere e proprie sostanze tossiche. Uno studio sui sedimenti del lago di Como effettuato dall’Istituto di Idrologia dell’Università degli Studi di Milano nel 1978 riscontrò così che nel bacino lecchese la concentrazione di cromo era aumentata di 8 volte, il nichel 4 volte, il rame 5 volte, lo zinco 5 volte e il piombo 6 volte. Anche se il bacino lecchese rappresentava certamente la situazione peggiore per quanto riguarda l’inquinamento industriale, segnali negativi di gravità variabile erano rilevabili nell’interno bacino lariano.



Fortunatamente, verso la fine degli anni ’70, l’accresciuta sensibilità ai problemi dell’ambiente spinse anche alla realizzazione dei primi interventi per il risanamento del Lario, tra cui spicca per importanza la costruzione degli impianti di depurazione al servizio della città di Como e della città di Lecco. Si aggiunse un nuova legge che abbassò drasticamente il contenuto di fosforo nei detersivi, riducendo in tal modo la principale fonte di nutrienti. Il Lario reagì con prontezza alle cure prestategli, tanto che una più recente indagine limnologica condotta dall’Università degli Studi di Milano (G. Chiaudani e coll., 1992) ha rilevato una concentrazione media di fosforo pari a 33 ug/l lungo l’asse Colico-Lecco, e di 48 ug/l nel ramo di Como. Le peggiori condizioni mostrate nel bacino com’asco sono dovute all’assenza di un emissario che possa garantire un veloce ricambio delle acque.



I miglioramenti rispetto alla situazione di trenta anni fa, sono comunque evidenziati e ci si avvicina agli obiettivi del risanamento e ci si avvicina agli obiettivi di risanamento che sono realisticamente stati fissati a una concentrazione di fosforo pari a 20 ug/l. La strada da seguire è ovviamente ancora lunga ed è necessario insistere sulla rimozione dei carichi di fosforo attraverso la realizzazione e la buona gestione degli impianti di depurazione. E’ però lecito attendersi che i tempi di risposta del Lario diventino sempre più lenti man mano che ci avviciniamo agli obiettivi del risanamento. Nell’ipotesi più favorevole, cioè l’immediato e completo trattamento di tutti gli scarichi civili e industriali, si prevede che debbano trascorrere almeno dieci anni perché il Lario, possa raggiungere la tanto attesa situazione di equilibrio. Nel ramo di Como, a causa del lungo tempo di residenza delle acque (che supera i 12 anni), tale processo sarà ancora più lento.

Foto degli Inuit del Lario (Peteraq e Kayatrek).
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mercoledì 11 marzo 2009

AROUND HIGHLANDS A SEREGNO

Vi segnaliamo l'interessante serata che gli amici Mauro e Tatiana terranno a Seregno per parlarci del loro fantastico viaggio in kayak attorno alle Highlands scozzesi e per mostrarci le oltre 300 meravigliose foto che hanno fatto.
Un'occasione da non perdere!! 
L'appuntamente è per Lunedì 16 MARZO, alle ore 20.30 presso il Circolo Arci "Tambourine" di Seregno, in via Carlo Tenca 16.
Di seguito la locandina della serata... NON MANCATE!!!
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lunedì 9 marzo 2009

LIBRI - IL MIO PASSATO ESCHIMESE

"Il mio passato eschimese" è il racconto in prima persona dell'infanzia e della giovinezza dello sciamano Georg Qupersiman (o Qartsivaq, o Qipinge, per citare solo alcuni dei numerosi nomi che gli appartengono). Nato in Groenlandia nel 1889, e convertitosi al cristianesimo nel 1915, Qupersiman ha affidato in vecchiaia le proprie memorie al pastore protestante Otto Sandgreen, che le ha trascritte in un resoconto fedele, un resoconto suggestivo e coinvolgente proprio perchè scevro, volutamente, da elaborazioni letterarie. Rimasto orfano poco dopo la nascita per l'assassino del padre, Georg viene allevato da una madre coraggiosa e sfortunata e deve affrontare gli stenti e le privazioni di chi è costretto a vivere ai margini della comunità e a dipendere dalla carità altrui. Un lungo apprendistato lo trasforma in abile cacciatore e potente sciamano, capace di evocare le creature sovrannaturali che popolano la sua terra. La voce del protagonista e narratore, ingenua e quasi brutale nella sua immediatezza e sincerità, ci parla di un universo primigenio e intatto, dove una natura dominatrice e la crudeltà dei suoi simili costringono l'uomo a una lotta quotidiana per la sopravvivenza. Il mondo di Georg è un mondo di cose: il ghiaccio, il sangue che sprizza dalla coscia della madre ferita dal patrigno o dal corpo del cucciolo di orso colpito sulla neve, il cadavere di un cacciatore di cui si cibano i compagni per salvarsi dall'inedia. Nella narrazione scabra ed essenziale di Qupersiman, in cui riecheggia il ritmo delle nenie e dei "duelli di canti" di una civiltà ormai quasi scomparsa, non c'è posto per i sentimenti o i pensieri ma solo per le sensazioni: fame, freddo, paura, dolore e solitudine non sono semplici parole, ma entità concrete e terribili. Il racconto che ne deriva, asciutto ed essenziale come il succedersi delle cose, è una testimonianza su un mondo e su una civiltà ormai quasi del tutto scomparsa. Il mondo artico è evocato nel suo biancore e nel suo ghiaccio, nei kayak che percorrono le acque gelate, nella bellezza degli iceberg e degli abbaglianti specchi d'acqua che fanno risaltare, per contrasto, l'estrema povertà e durezza dell'esistenza.

Il mio passato eschimese.
Autore: Qupersiman Georg
1999, 208 pagine, Editore Guanda

giovedì 5 marzo 2009

LE BISCE D’ACQUA




Non tutti sanno che i rettili possiedono alcuni rappresentanti legati all’ambiente lacustre dove pagaiamo: il più diffuso tra essi è la Natrice dal collare (Natrix natrix, famiglia Colubridi), l’innocua biscia d’acqua. Può raggiungere i due metri di lunghezza. La parte superiore del corpo è variamente grigia, con 4-6 file longitudinali di macchie nere: la si riconosce facilmente per due macchie gialle o biancastre sulla parte posteriore del capo. Predilige i luoghi isolati e gli ambienti non modificati dall’uomo, con vegetazione folta e presenza di acqua. In caso di pericolo emette un fischio molto acuto e si avvolge su se stessa, ma se si sente minacciata svuota le apposite ghiandole del loro contenuto maleodorante. Nonostante questo, però, è assai difficile che morda, preferendo di solito scomparire nel folto della vegetazione. La femmina depone in un nido all’asciutto 10-25 uova tra luglio e agosto: i piccoli alla nascita sono lunghi 15-20 cm. Questo serpente è osservabile pressoché ovunque sotto gli 800-1000 metri, poiché si allontana molto dall’acqua; sue prede preferite sono gli anfibi, sia allo stadio larvale che allo stadio adulto.


Natrice tassellata
Assai più acquatica e relativamente meno frequente è l’affine Natrice tassellata (Natrix tessellata), specie che è più legata ai grossi specchi d’acqua (Lario e laghi briantei) in quanto preferisce cibarsi di pesci. Essa presenta dunque un grado di adattamento superiore all’ambiente acquatico rispetto a Natrix natrix , rilevabile soprattutto nella struttura degli occhi, più sporgenti di quella della Natrice dal collare per consentire una migliore visione a pelo d’acqua. Riesce a restare anche a lungo immersa in acqua in attesa del passaggio di una preda (piccoli pesci, girini, rane e rospi) ed è un’abile nuotatrice. Anche la tassellata assume un comportamento curioso se minacciata: in un primo momento infatti sibila e appiattisce la testa, simulando il comportamento di attacco di un viperide sino a fingere il morso (a bocca chiusa!), dopo di che, se la minaccia persiste, finge di essere morta ribaltandosi sul dorso e tenendo la bocca aperta con la lingua a penzoloni.