Descrivere la prova appena portata a termine non è facile.
Limitarsi ad un mero resoconto, una cronaca; temo non basti.
Ora, cercherò di dare la descrizione dettagliata di tutte le emozioni provate, l’armonia coi compagni d’avventura e come, un’iniziativa di questo genere, porti a conoscere e stimare le persone con le quali è stata condivisa.
Quattro figure bizzarramente vestite s’avvicinavano alla riva del lago, quattro persone che con determinazione stavano per affrontare un’avventura tutt’altro che scontata; coi loro kayak avrebbero percorso novanta chilometri con pochissime soste tecniche.
Per chi è solito usare mezzi di trasporto a motore, novanta chilometri sono una bazzecola, ma percorrere quel tragitto a bordo di un kayak spinto dalle tue sole forze, è cosa ben differente.
Partiamo dall’inizio.
Il famigerato corrente anno duemilaventi!
La nostra società sportiva dilettantistica, “Canoa Kajak 90”, compie trentanni dalla sua costituzione e per celebrare questo importante anniversario, già dallo scorso anno si cominciò ad organizzare delle iniziative d’intrattenimento che coinvolgessero tutti i soci.
Così come le ciambelle non sempre riescono col buco, per colpa e del COVID 19, non s’è potuto fare nulla.
Dopo la lunga e stressante clausura, le cose, pareva si orientassero verso la normalità e con il rigoroso rispetto delle regole, si ricominciò a praticare l’amata attività canoistica.
In una di quelle sere, dove ci si trova tra amici e si discute delle attività sociali, Felice se ne esce con una proposta, poche parole che a noi parvero note musicali «Perché non facciamo la “CK90KM”?».
Subito in noi sorse l’idea di sfida, di avventura e di impresa, il tutto, subito dopo, soffocato da quel senso di auto conservazione che ti spinge a replicare con «No! E’ una pazzia! Novanta chilometri; partenza notturna, poche soste, le condizioni climatiche che in un percorso così lungo potrebbero cambiare da un momento all’altro, la Breva, il Tivano e per non parlare della pioggia e dei natanti a motore».
Nonostante tutte le obiezioni, l’ideatore dell’iniziativa, affermò: «Io la faccio! Chi vuole si aggreghi!».
Come un piatto quando cade sul pavimento del ristorante, questa frase causò un gelido silenzio tra gli astanti. Io stesso cominciai a soppesare i pro (pochi) e i contro (tanti) e conclusi che sarebbe stato corretto adottare una politica rinunciataria in funzione di una conservazione del benessere fisico.
Solo pochi giorni dopo, sul gruppo WhatsApp degli Inuit del Lario, Felice propagandò l’iniziativa e coinvolse tutti i soci sperando che qualcuno aderisse.
Da quel giorno cominciai ad avere pareri contrastanti, come se sulla spalla destra un Vittorio con tanto di aureola, ali e candida veste mi esortasse a rinunciare e sulla spalla sinistra un altro Vittorio con corna, forcone e coda a punta mi spingesse a partecipare all’impresa.
Dopo aver trascorso ore a far da mediatore tra le due parti comodamente assise sulle mie spalle, due giorni prima della data prescelta scelsi il compromesso.
Per non recar torto a nessuno dei due bizzarri esseri che albergavano sulle mie spalle, avrei partecipato; ma con spirito di sacrificio perché non me la sentivo di mandare da sole all’avventura persone a me tanto care.
Il 19 agosto, Roberta Mandelli, Enzo Villa e Paolo Chiavenna partono per la stessa avventura e in due giorni percorrono i 90 Km con esito positivo e questo fu sicuramente di buon auspicio e quindi mi sentii ancor più motivato.
Il 20 agosto, alla vigilia della nostra impresa, ho fatto i preparativi.
Giacca d’acqua, quattro pacchetti di cracker, della frutta, capellino, occhiali da sole, tre costumi, tre magliette, pila frontale e sei bottigliette d’acqua.
Alle 23:30 dello stesso giorno, ritrovo alla sede Canneto di Vercurago, Felice Farina, Pietro de Angelis, Luca Martino e ovviamente io.
Riempiti i gavoni dei kayak e vestiti i panni necessari ad affrontare l’avventura, ci siamo diretti alla partenza.
Quattro ombre si profilarono nella tenebra e avvicinatisi alla riva, in religioso silenzio, immersero le prue dei loro kayak nello specchio immacolato dell’acqua del lago di Garlate.
Il solo sciabordio delle pagaie a turbare il silenzio e ad increspare la superficie liscia del lago.
Tutto filò liscio fino al Ponte Azzone Visconti, dove, dopo aver ricompattato il piccolo gruppo, si affrontarono le correnti sotto le arcate.
Da li in poi, la navigazione fu spedita e dopo il rituale saluto alla statua dorata del San Nicolò a Lecco, continuammo mantenendo una buona media oraria fino ad Abbadia Lariana dove incontrammo uno dei tanti figli di Eolo che dall’alba dei tempi soffia da nord verso sud sul nostro amato lago. Il Tivano.
Le onde, che a dire il vero non erano troppo impegnative e le raffiche ci costrinsero, comunque, ad abbassare leggermente la media ma rendendo la pagaiata più divertente e fresca.
La prima breve sosta appena passato l’abitato di Mandello del Lario, poi subito in kayak e via sempre accompagnati dal Tivano e dalla tenebra appena rischiarata dal lucore stellare.
Il tratto di lago percorso da Mandello verso Piona, è caratterizzato da coste rocciose e frastagliate a picco nell’acqua.
La sensazione che si prova in quel tragitto nel buio, è quella di essere trasportati a tempi arcaici, quando la presenza umana non era ancora apparsa sulla terra.
Quando capita di udire il rombo di un motore o vedere un fascio di luce forare la tenebra, si prova un fastidio fisico, come di repulsione per quell’episodio che manda in frantumi l’incanto che la mente ha creato riportandoci al presente.
Il gruppo dei quattro raminghi, che infilati nei loro gusci affrontano l’onda e la tenebra, continuò in tranquillità; a volte capitava che ci si avvicinasse ad un compagno e si imbastisse un discorso che distraesse un poco dalla concentrazione del pagaiare; poche parole, magari semplici battute goliardiche che consentono a rafforzare lo spirito cameratesco che nasce tra i partecipanti alle imprese così bizzarre.
A Varenna la seconda breve sosta, giusto il tempo per sgranchire le gambe.
Lasciata la bellissima Varenna ancora alla luce delle stelle, il nostro procedere continuò tranquillo e indisturbato; fino a quel punto del nostro percorso fummo i soli a solcare quelle acque, non un motoscafo, non un battello, insomma, nessuno tranne noi e già a quel punto l’impresa era più che valsa a giustificare lo sforzo.
Poco prima di Dervio, la tenebra cominciò a farsi meno fitta e le prime luci dell’alba andavano a scansare dagli anfratti montani il buio che ivi aveva albergato durante la notte.
Con la luce, arrivò anche una ventata di benessere, come essere usciti da un lunghissimo tunnel che, pur avendoci fatto provare tante emozioni, ci aveva comunque; e credo sia normale, scorato un po’; si cominciarono a delineare i paesi con le loro case e costruzioni, in particolare Corenno Plinio, col suo castello che domina il lago.
Con la luce arrivarono anche le rimostranze dello stomaco che a gran voce reclamava il suo dovuto. Così, a Dervio ci fermammo e come pirati andammo all’arrembaggio del primo bar aperto per consumare una lauta colazione.
Seppur considerato poco il tempo trascorso coi piedi a terra, lasciammo Dervio alla volta della meta che ci avrebbe condotto a metà del tragitto completo. Piona.
Sempre accompagnati dalla fresca carezza del Tivano, abbiamo percorso quel tratto alla luce mattutina; le coste del lago si presentano ancora a picco sulle acque, questa volta non rocciose ma coperte da una fitta vegetazione di piante e arbusti. Solo se si alzava lo sguardo capitava di vedere delle costruzioni accoccolate sulle sommità delle coste del lago.
Dopo aver passato il pontile d’attracco dell’abazia di Piona, cominciammo ad incontrare i natanti a motore e fu una liberazione dai loro gas di scarico approdare nella piccola baia di Piona.
Metà del percorso era stato coperto in circa nove ore e ci siamo concessi una sosta di circa un’ora dove abbiamo colto l’occasione per berci un caffè, farci un bagno ristoratore e fare il cambio degli indumenti indossati con altri asciutti.
Alle 10:00, partimmo alla volta di Gravedona, sulla riva opposta del ramo del lago. La traversata trascorse tranquilla nonostante l’andirivieni dei motoscafi e una volta giunti sull’altra sponda e sorpassato Dongo, il sole cominciò a colpire con inclemenza i nostri cappellini e come se ne avessimo fatta espressa richiesta, il dio dei venti fece alzare la Breva, un vento che soffia da sud a nord che ci rese più sopportabile il caldo ma che, a causa delle inevitabili onde e raffiche, ci rallentò.
Passata un’altra serie di paesini di cui non saprei dire il nome, ci fermammo per il pranzo.
Secondo bagno, dove Luca diede una particolare dimostrazione della sua perizia natatoria.
Poi via alla volta di Menaggio e da lì ad affrontare la traversata verso Bellagio.
Per me fu il tratto più divertente, perché nonostante le onde della Breva, quelle delle imbarcazioni private, dei battelli, dei traghetti e degli aliscafi, presenti in enorme numero in quel tratto di lago, mi sono sentito a mio agio e non ho provato alcun imbarazzo nell’affrontare qualsivoglia tipo di onda. Grande soddisfazione personale.
Dopo tanto sballottamento, (sembrava di montare un toro in un rodeo) ci siamo presi un’altra meritata breve sosta.
Lasciato Bellagio, siamo tornati sulla lacustre rotta del ritorno.
Passati oltre Vassena, la stanchezza sia fisica che psicologica presentò il conto e i chilometri che mancavano all’arrivo, diventavano sempre più lunghi, come se tutto d’un tratto le unità di misura si fossero dilatate per il caldo e la stanchezza.
A Onno, comunicavo ai compagni che eravamo quasi al Motel Naulitus… mancavano ancora tre chilometri!
Al Nautilus, l’ultima brevissima sosta per sgranchire le membra ormai anchilosate.
Dopo quest’ultima sosta, le cose cominciarono ad andar meglio, forse il tratto di lago che percorsi innumerevoli volte in passato? Forse la Breva che in quel tratto se ne era andata? Non so! Era come respirare l’aria di casa e questo particolare mi ha dato una carica che pensavo d’aver speso ormai da tempo.
Ad un tratto, le misure lineari riassunsero il loro normale significato e all’apparire del porto di Parè prima e il lungolago di Malgrate poi mi confortarono.
Ormai erano pochi i chilometri mancanti per giungere a Vercurago.
Non vedevo l’ora di scendere dal mio Baidarka!
Passate le arcate del ponte Kennedy e del ponte Vecchio, ormai mancava davvero poco, l’umore era finalmente tornato buono e dal ponte Manzoni siamo scesi in tutta calma e in amabile conversazione con Felice che ci consigliava di sperticarci in ringraziamenti e congratulazioni solo di lì ad un paio di giorni; non subito! Già sapeva che non lo avremmo fatto comunque.
Poi l’arrivo alle 21:15!
Le calorose strette di mano e i complimenti scambiati reciprocramente tra noi partecipanti avevano quel carattere sincero di chi ha condiviso uno sforzo e che di conseguenza ne comprende appieno il sacrificio perché sofferto in egual misura.
Scesi a terra, ci aspettava una fantastica accoglienza che io neanche avevo immaginato; Ruggero, Claudio con Tanina, Paolo, Marino con Lory, Mary con la piccolissima Margherita, Giovanni, Gianmarco con Cristiana.
Ebbene; vi ringrazio tantissimo, così come ringrazio tutti coloro che, seppure assenti al nostro arrivo, si sono interessati allo svolgimento dell’evento. Siete fantastici!
Per concludere:
non abbiamo compiuto un’impresa epica e immagino che moltissimi dei nostri soci avrebbero potuto parteciparvi e giungere brillantemente al termine.
Ci sono comunque momenti che nella nostra vita lasciano un segno indelebile; qualcosa di importante che ricorderemo per sempre. Passerà del tempo e come sempre tutti scorderanno quell’episodio.
Tutti!
Ma non i protagonisti.
Questo evento nato per festeggiare il trentesimo anniversario del CK90, mi ha dato una serie infinita di emozioni condivise coi miei compagni di viaggio. Mi ha dato l’opportunità di passare del tempo con loro permettendomi di conoscerli un po’ di più. Ho avuto la conferma che con un kayak e una pagaia, si possono compiere imprese che vanno ben oltre la banale normalità. Inoltre, ho passato una giornata intera praticando lo sport più bello del mondo; il mio sport!
Il kayak.
Testo di Vittorio Fantato (Inuit del Lario - CK90)