"Vorrei imparare dal vento a respirare, dalla pioggia a cadere,
dalla corrente a portare le cose dove non vogliono andare,
e avere la pazienza delle onde di andare e venire, ricominciare a fluire..."
(Tiromancino)

lunedì 15 giugno 2009

SOGNI SUL QAJAQ



“Sembra che tra gli Inuit i mancini siano piuttosto rari, ma forse si tratta di un’impressione dovuta al fatto che nei loro villaggi noi veniamo in contatto con ben poche persone. Un vecchio di Saumi, mancino, era morto e il suo elegante kayak era stato posto sui supporti di pietra vicino alla tomba lungo l’Inukjuak River. I supporti servivano per proteggere la barca di cuoio dai denti dei cani che nel nord mangerebbero qualunque cosa. La vedova mi aveva visto ammirare il kayak e quando si rese conto che sono mancino anch’io, decise di regalarmelo. Ne discussi con Norman Ross e poi, pieno di gratitudine, le feci un regalo. Le pelli di foca che ricoprivano il kayak di Saumi erano consumate e le cuciture tendevano ad aprirsi. Le costole di legno ricurvo dovevano essere legate con legacci di pelle di foca e la struttura all’interno del kayak era da ricoprire. La vecchia si sovrintendere alla nuova ricucitura ed io vi contribuii con una o due pelli, così come voleva l’usanza. Vecchie regole, forse di origine sciamanica, ebbero il sopravvento quando si trattò di cucire il kayak. Le donne ordinarono agli uomini di starsene alla larga durante l’interno procedimento di ricopertura che, per tradizione o per motivi pratici, doveva essere portato a termine tra l’alba e il tramonto. Io avevo una gran voglia di assistere alla riparazione del kayak, così, servendomi di un paio di binocoli, rimasi a guardare da lontano standomene nascosto in mezzo alle rocce. Che delusione! Le donne non conoscevano più l’arte della ricopertura pensai. Che cosa me ne sarei fatto di un kayak con tale ricopertura che sembrava fradicia? Mi sbagliavo. Nella brezza del mattino, le pelli raschiate del kayak asciugarono subito e si tirarono fino a diventare lisce come la pelle di un tamburo; la luce obliqua del sole rendeva il kayak quasi trasparente, lasciando intravedere le sottili costole interne. Quel kayak, lungo ed elegante, aveva un abitacolo rotondo nello stile del Quebec artico, cioè formato da un robusto pezzo di legno inzuppato nell’acqua ed esposto al vapore, poi piegato tra i denti di un uomo robusto fino a formare un ovale, e, quindi, mantenuto in posizione dalla ricopertura di pelle del sedile. Non c’erano né chiodi né pioli. Tutto era legato insieme in modo tale che durante gli uragani potesse distendersi o piegarsi seguendo le onde invece di spezzarsi.



Naomialook fece per me una nuova pagaia doppia con le tipiche pale strette, non più larghe del palmo di una mano e con la punta rinforzata d’osso. Queste pale erano strette, dicono alcuni Inuit, perché assi di legno più larghe non erano quasi mai disponibili ed essi avevano imparato a usare pale più spesse e più strette col loro grande vantaggio, dal momento che erano più robuste, quando i cacciatori si trovavano nella necessità di schivare il ghiaccio. Coloro che usavano il kayak mi avevano messo in guardia in modo da evitare che gli stivali portassero a bordo anche la più piccola quantità di sabbia, sostenendo che i minuscoli granelli avrebbero raschiato contro la parte inferiore delle costole finendo con il causare dei buchi nella pelle. Mi mostrarono un posto, chiamato kavuvavak, dove gli uomini dei kayak trasportavano le loro imbarcazioni al largo, lontano dalla riva camminando su un fondo irregolare di pietre. In quel punto essi facevano galleggiare i loro kayak in acque più profonde prima di pulirsi, per poi infilarsi a bordo.




Gli uomini più anziani mi insegnarono a pagaiare nelle acque tranquille del fiume, mi fecero vedere come si tiene alta la pagaia se si vuole prendere velocità, come si sistema un pezzo di grasso di foca sul bordo dell’abitacolo e come bisogna farvi rotolare sopra la pagaia doppia in modo da far riposare le braccia nei viaggi lunghi. Quel kayak era abbastanza stabile da permettere a una seconda persona di starsene distesa sulla parte posteriore. Soltanto una, tra le ragazze che conoscevo, si offrì spontaneamente di compiere quella traversata rischiosa. Con la pagaia che rotola sul pezzo di grasso è possibile pagaiare in modo assai rilassato, godendosi il piacere incomparabile di scivolare attraverso acque calme e limpide mentre grossi pezzi di ghiaccio galleggiavano nelle vicinanze. Una foca può emergere silenziosamente a una distanza tale da poter essere quasi toccata dal remo e rimanere a osservarvi con gli occhi spalancati. Quando lasciai Inukjuak, spedii per nave il mio kayak a nord, fino a Kingait. Quando arrivò, il suo abitacolo rotondo era rotto. I Kingaimiut furono lieti di ripararmelo, ma, ahimè, gli costruirono una parte posteriore piatta, così come li fanno a Baffin. Infine, con uno sforzo congiunto da parte mia e di Jack Molson, quel kayak trovò la sua sistemazione nel McCord Museum, a Montreal. Forse possiamo considerare quella imbarcazione snella e perfetta come il simbolo delle antiche migrazioni tra il Quebec artico e il mondo della Baffin Island.”
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Testo tratto dal libro ”Alla scoperta degli Inuit” di James Houston.
Foto tratte dal sito del McCord Museum of Canadian History www.mccord-museum.qc.ca


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