"Vorrei imparare dal vento a respirare, dalla pioggia a cadere,
dalla corrente a portare le cose dove non vogliono andare,
e avere la pazienza delle onde di andare e venire, ricominciare a fluire..."
(Tiromancino)

lunedì 22 febbraio 2010

CACCIATORI DI ANIME di MASSIMO MAGGIARI (terza parte)



E’ blu plumbeo questo specchio d’acqua spazzato dalle correnti del Nord. Nuntak si agita sulla riva rocciosa con il tamburo. Li sta chiamando, mentre l’insenatura ancheggia lunga e sinuosa. Ecco lo stretto passaggio. Scivolo con il qayaq verso il centro di quell’oltre. La prua si battezza. Laggiù Nuntak mi ha istruito ad attendere. La nebbiolina intorno ritrae come un velo appena dissolto. Si svelano gradualmente una caletta, un inuksuit che segnala l’entrata, e un roccione sospeso. Ascolto il frangersi di una cascata lontana. Poi altri vaghi sciabordii che echeggiano come in un antro. Sono qui o là immobile al centro del flusso. Sotto la lunghezza dello scafo ribollono mille forme dense di vita. Si aggirano come ombre sfuggenti. Foche o pesci? Fuori è tutto così pace e silenzio, da sprofondarci dentro. Odo un grido e diversi colpi di pagaia far svanire all’improvviso questa calma. Sono proprio loro li sento. Stanno arrivando. Mi vengono a prendere. Sono i misteriosi cacciatori di cui ha parlato Nuntak. Afferro in mano la mia collana della medicina per l’ultima volta. La ringrazio e la getto nell’acqua gelida. Non ho più nulla da offrire. Sono veramente solo. Nudo. Pronto a riceverli. A un qualche grido sfrecciano verso di me tre lunghe canoe. Li vedo bene mentre avanzano. Sembrano per lo più muti e tesi, questi Inuit della costa orientale. Sono tutti uomini, tranne una donna, ritta sulla prua. Mi grida: “Dicci il tuo nome! Dicci chi sei!” “Mi chiamo Marius, sono un qablunaat (bianco) che viene da Kasuq …” continua senza darmi tregua… “Perché sei entrato nel nostro angolo di mondo? Che cosa cerchi?” ed io: “Mio padre sta morendo, ma devo sapere quando…” Lei sempre incalzante… “Solo gli spiriti del fiordo possono rivelarlo… hai tu il coraggio di chiederlo a loro?” Alzo la pagaia al cielo e grido: “Sì, perché porto un dono”. S’affrettano vicini. Mi legano una fune alla prua, e poi tirando dentro nel profondo del fiordo, mi abbandonano alle acque più oscure. Alle maree più ossute. Ai sassi meno esposti.



Ne uscii provato dopo tre notti e tre giorni. Quando lo vidi, Nuntak aspettava seduto a fianco dell’inuksuit. Forse sorridendo. Avevo tanta fame, tanta sete, tanto sonno… e non avevo un nome, non avevo cento amuleti, né sapevo quando mio padre sarebbe morto. Almeno per ora. Le mie mani erano vuote, il mio cuore gonfio e cieco. Agli spiriti avevo donato la quiete. Un canto di mia figlia, appena sorto dal mare. E cantando ri-cantando per tre notti e tre giorni avevo compiuto la prodezza di un’intera vita. Avevo restituito alle stelle tutti i nomi caduti dal cielo.


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