"Vorrei imparare dal vento a respirare, dalla pioggia a cadere,
dalla corrente a portare le cose dove non vogliono andare,
e avere la pazienza delle onde di andare e venire, ricominciare a fluire..."
(Tiromancino)

mercoledì 30 dicembre 2009

SUA MAESTA’ L’ORSO BIANCO



L’Orso bianco o polare è signore incontrastato della banchisa, suo territorio di caccia. Maestoso e spesso solitario, impone la sua legge, quella del più forte, in questo universo ghiacciato dove non ha nemici né predatori. Questo mammifero, il più grande carnivoro terrestre, può raggiungere i 600 kg (la femmina 400 kg.) e quando si drizza sulla zampe, misura anche tre metri.


Emblematico del Grande Nord, l’Orso polare, il cui nome scientifico è Ursus maritimus, si è perfettamente adattato al clima: la sua calda pelliccia gli fa da cappotto e uno spesso strato di grasso lo ripara dal freddo. Grazie alle sue grosse zampe palmate, è un ottimo nuotatore.


Questo cacciatore passa la maggior parte del tempo a cacciare e a mangiare foche sulla banchisa. Il suo fine olfatto gli permette di fiutarne la presenza in un raggio di dieci chilometri. Allora si apposta e le coglie di sorpresa, uccidendole con una potente unghiata. Quando in estate la banchisa si scioglie, l’orso si rifugia sulle coste, dove non troverà granché da mangiare a parte bacche, alghe e uccelli. In questo periodo dell’anno le femmine scavano tane per dare alla luce i loro cuccioli. Nell’artico vivono ancora circa 25.000 esemplari di Orso polare, presenti soprattutto in Groenlandia e nell’artico canadese.


.

lunedì 28 dicembre 2009

L’AMBIENTE LARIANO E LA FAUNA OMEOTERMA (prima parte)

Monte Moregallo
I contrafforti rocciosi delle sponde lacustri ospitano un rapace che in questi ambienti raggiunge densità impensabili, il Nibbio bruno (Milvus migrans). Di dimensioni relativamente grandi (possiede un’apertura alare di 130-150 cm) è riconoscibile in volo per il piumaggio uniformemente scuro e la coda forcuta, caratteristica quest’ultima che permette di distinguerlo dalla Poiana e dal Falco pecchiaiolo.



Nibbio Bruno

La specie nidifica per lo più sulle falesie lacustri, sulle cenge erbose, alla base di cespugli abbarbicati sulle pareti rocciose, ma anche sulla biforcazione di grossi alberi, sia in coppie isolate che in colonie di qualche centinaia di individui.


Città di Lecco

Dopo l’involo dei giovani, osservando da Lecco il Monte Coltiglione o la Grigna Meridionale, se ne possono vedere volteggiare insieme fino a più di 200 individui. Ed è altrettanto comune avvistare alcuni nibbi in volo sopra la città di Lecco o vederli sfiorare il pelo dell’acqua lungo tutto il bacino del Lario. Infatti il Nibbio bruno si nutre soprattutto di pesci, meglio se malati o morenti. Il Nibbio bruno è presente con continuità, quale nidificante, lungo tutta la fascia prealpina mentre risulta quasi assente nel resto del Nord Italia; generalmente “scompare” verso il mese di settembre recandosi a svernare in Africa e riappare nei cieli lariani nel mese di marzo.


Gabbiano reale


I distretti lariani risultano essere luoghi idonei anche per il Gabbiano reale, specie che ha rivelato negli ultimi decenni una netta espansione, probabilmente causata dal parallelo incremento delle risorse alimentari reperibili nelle discariche di rifiuti e nelle colture agricole: dai tradizionali siti di nidificazione, ubicati sulle coste marine e sulle isole, questo grosso laride ha infatti, negli ultimi anni, colonizzato le acque interne. In Lombardia se ne è accertata la presenza fin dal 1979, sul Lago di Garda, ed ora la sua nidificazione avviene costantemente anche su alcune falesie rocciose del Lario.

Monte Coltiglione


Più precisamente il Gabbiano reale nidifica nei pressi di Lecco, vicino a Bellagio e molto probabilmente anche sulle pareti rocciose poste a ridosso del Lago di Mezzola. Piuttosto cospicua è anche la presenza di gabbiani reali svernanti, i quali talora si uniscono ai gruppi di gabbiani comuni soprattutto nei siti di alimentazione.

Lago di Mezzola
.

mercoledì 23 dicembre 2009

LA PAGAIATA ALL’INDIETRO


E’ generalmente il colpo più trascurato della tecnica del kayak, eppure riveste un’importanza fondamentale per la buona conduzione dello scafo in acqua. La pagaiata all’indietro viene spesso considerata il negativo del colpo in avanti: essa ha invece una sua precisa identità, e presenta pochissimi somiglianze con la propulsione in avanti. Per descriverla utilizzeremo anche in questo caso la suddivisione del colpo in quattro fasi.


PREPARAZIONE
Partendo dalla posizione base, il busto arretra leggermente effettuando una torsione completa verso il lato di lavoro per caricare l’energia da utilizzare nella fase di potenza. Accompagnando la rotazione, il braccio di lavoro si distende leggermente. Lo sguardo segue il movimento di torsione cercando l’obiettivo da raggiungere.



PRESA
Come per la pagaiata in avanti, anche il colpo indietro richiede una presa solida per una fase di potenza più efficace. Per cercare il punto di forza, il dorso della pala va immerso perpendicolarmente al piano dell’acqua; se viene introdotto in posizione orizzontale, infatti, non può sfruttare interamente la propria superficie, riduce la propulsione e crea un appoggio che in questo caso non è necessario.



POTENZA
Una volta caricata la molla del busto e trovato il punto di presa in acqua, si applica potenza per far arretrare il kayak. Ciò avviene attraverso la rotazione e lo spostamento del busto in avanti: la forza acquisita dalla pala in acqua viene scaricata sullo scafo grazie alla spinta del bacino sul poggiaschiena. In questa fase le braccia accompagnano semplicemente il lavoro del busto, senza esercitare alcuna trazione o spinta.




ESTRAZIONE
La pagaiata indietro sfrutta interamente lo spazio di lavoro compreso tra la poppa e la prua del kayak. Il movimento di estrazione è molto semplice: basta sollevare il braccio di lavoro una volta che si raggiunge l’altezza dei piedi. Per effettuare il colpo successivo, il busto compie nuovamente una torsione verso il lato di lavoro e si ricomincia la progressione.



ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA PAGAIATA ALL’INDIETRO:
.
SGUARDO
Anche per la pagaiata all’indietro vale la regola dello sguardo: deve essere fisso sulla direzione in cui vogliamo andare. Nella fase di apprendimento, a ogni colpo è consigliabile ruotare la testa verso il lato di lavoro, in modo da favorire la torsione del busto. Una volta interiorizzato il movimento, le possibilità saranno molteplici: guardare solo da un lato per ridurre i movimenti della testa, fissare la prua del kayak utilizzandola come mirino, oppure guardare avanti e indietro a seconda delle comodità.




VERTICALITA’
La pagaiata all’indietro è prevalentemente un colpo di controllo, quindi non necessità di velocità. Mentre nella propulsione in avanti il tubo della pagaia va tenuto verticale, in questo caso è consigliabile mantenerlo piuttosto orizzontale rispetto al piano dell’acqua, per garantire maggior controllo è più stabilità, soprattutto in presenza di onde.

.

lunedì 21 dicembre 2009

LIBRI - NEL BIANCO


In questa nuova prova letteraria Simona Vinci sente e segue il richiamo delle terre estreme del nord e raggiunge, via Islanda, un piccolo villaggio tra le montagne della Groenlandia orientale, Tasiilaq, nel quale trascorre due settimane in compagnia di poco meno di duemila anime quasi tutte inuit. Nel bianco non è solo un diario di viaggio, corredato di molte foto in bianco e nero, che si confronta con tutta la letteratura e l'avventura che riguarda il Polo Nord (molto utile la bibliografia finale nella quale si trovano i viaggi degli esploratori), ma è anche un indagine sull'altro, i nativi inuit, e quindi un indagine che si capovolge su se stessi, sulla nostra civiltà. La solitudine che la scrittrice cerca e trova in quel mondo incontaminato di ghiaccio e neve è quella che la porta a un viaggio interno di crescita, che le permette di cambiare la visione su molte cose. Paradossalmente si cerca il diverso per conoscere i propri simili, si ricerca la solitudine per poi capire, dal grado zero esistenziale, che sta ancora a cuore il destino dell'umanità e la sua convivialità. Gli inuit, i nativi della Groenlandia, sono un popolo completamente sradicato la cui sorte è simile ma meno conosciuta e più recente di quella occorsa ai nativi nordamericani. L'arrivo e le conquiste della modernità hanno comportato per gli inuit solo un alcolismo latente, un aumento esponenziale dei suicidi, sopratutto tra i giovanissimi, e in generale la perdita delle consuete tradizioni e dei poveri ma sufficienti mezzi di sussistenza e sopravvivenza. Una esistenza fatta solo del poco indispensabile è stata scalzata da quella occidentale dominata dall'inutilità dei consumi. Il modello occidentale non si limita all'annullamento culturale, ma persegue la trasformazione irreversibile del paesaggio e della natura: lo scioglimento dei ghiacci è una conseguenza del riscaldamento globale dovuto all'inquinamento che ha dirette conseguenze sullo stile di vita degli abitanti del polo e dell'intero pianeta. Quello che traspare da queste pagine, sopratutto quelle più apocalittiche, è che la nostra civiltà non ha alcuna speranza di progettazione e di immaginazione del futuro perché lo ha compromesso. Vinci mette a confronto, infatti, il collasso e il fallimento dell'aggressiva civiltà d'espansione vikinga, che cercò invano, intorno all'anno mille, di colonizzare l'“isola verde”, la più grande del pianeta che unisce l'Artico all'oceano Atlantico, la Groenlandia appunto, al collasso imminente del nostro stile di vita anti-ecologista e basato sullo spreco delle risorse, senza ipotesi di rinnovo, e il consumo del superfluo. Il pessimismo della scrittrice è di due nature: anti-positivista, contro il progresso e l'agire dell'uomo, e cosmico, fermamente convinto del caos che domina la natura e delle sue conseguenze. Nel bianco arriva a queste conclusioni molto radicali dopo un viaggio e un confronto interno, duro e doloroso, ma è anche un viaggio nel viaggio: un viaggio letterario che ha bene a mente anche le fascinazioni e i motivi del passato per il tema del nord, che è quello del rifiuto della società e dei suoi valori. Il titolo e la copertina con la balena bianca alludono a Moby dick di Melville, citato per la teoria del bianco come colore supremo della paura, ma ci sono molti richiami al Walden di Thoreau, per le riflessioni sulla vita in condizioni limite di sopravvivenza, e a Zanna bianca di London, soprattutto per le escursioni in slitta trainata dai cani. Tra queste evocazioni Vinci inserisce anche un elemento di originalità e riflessione: al termine del viaggio, che coincide con la crescita e con la perdita di qualsiasi speranza nell'avvenire, si arriva a una nuova affezione per il genere umano e una nuova fiducia nella scrittura non salvifica, ma vista come “un ponte lanciato al di là dell'abisso”.
.
TITOLO: Nel bianco
AUTORE: Simona Vinci
EDITORE: Rizzoli
2009, 232 pagine, EUR 16,50
.

giovedì 17 dicembre 2009

LA CANNAIOLA, LA PICCOLA CANTERINA DEL CANNETO



Il suo canto allieta le nostre pagaiate durante la bella stagione. Appartiene all’ordine Passeriformes, famiglia Sylviidae, uccelli di piccole dimensioni, ma instancabili cantori, dal becco sottile e dalla silhouette delicata. Il suo nome scientifico è Acrocephalus scirpaceus. E’ un piccolo passeriforme della lunghezza di circa 13 cm e del peso di 12 grammi, dal piumaggio insignificante color grigio brunastro sulle parti inferiori, con il sopraccoda più rossiccio; le parti inferiori sono chiare, tendenti al marroncino sul ventre e al bianco sulla gola. Il sopracciglio è appena disegnato e poco visibile. E’ tipica la sua silhouette slanciata, soprattutto per il profilo della testa e per il becco molto sottile. Un elemento diagnostico è il canto, più monotono e uniforme rispetto a quello della Cannaiola verdognola. E’ abbastanza confidente, ma difficilmente si espone fuori dalla fitta vegetazione palustre.



Tipica abitatrice della zone umide paludose, in particolare quelle a canneto con acque poco profonde, ma si insedia anche nelle zone marginali, dove inizia la terraferma, con vegetazione anche ad arbusti e a salici. I maschi giungono nei quartieri di nidificazione almeno una settimana prima delle femmine e qui conquistano il territorio attraverso l’emissione prolungata di canti, specialmente prima dell’alba. La sua alimentazione si basa soprattutto su piccoli antropodi acquatici.



In Italia è ovunque estiva e nidificante, anche se è più scarsa nelle regioni meridionali. In Lombardia è distribuita in modo discontinuo negli ambienti acquatici di pianura. Popolazioni consistenti sono localizzate nei canneti del Lago Superiore di Mantova (80-100 coppie), della palude di Ostiglia (20-30), del Pian di Spagna (15-25). La Cannaiola è così simile alla Cannaiola verdognola che per distinguerle a distanza ravvicinata occorre esaminare la forma delle penne delle ali.

.

lunedì 14 dicembre 2009

WISKIE 2009


.
Sabato e domenica scorsi si è svolta in Liguria l'edizione 2009 del WISKIE, il raduno di Sottocosta di fine anno. Gli Inuit del Lario, presenti coi loro kayak, le loro pagaie e i loro brindisi, ringraziano di cuore per questa splendida esperienza Luciano e tutti quanti hanno contribuito all'impeccabile organizzazione, Sottocosta per tutto ciò che fa per il kayak da mare, e tutti partecipanti per la simpatita. Speriamo di rivederci presto in acqua!
.

LA LINGUA E I DIALETTI INUIT




La lingua non è mai stata intaccata dalle culture esterne ed è tuttora parlata in tutte le comunità. Il numero totale di parlanti è stimato in circa 90.000: di questi, 3.000 in Alaska, 30.000 in Canada, 50.000 in Groenlandia, e altri 7.000 vivono in Danimarca. La lingua è tradizionalmente parlata in tutta l'Artide nordamericana e in qualche misura nella zona subartica, nel Labrador. L'inuit appartiene alla famiglia delle lingueeskimo-aleutine; più che una lingua, si tratta di un continuum linguistico suddiviso in sedici varietà, a loro volta raggruppate in quattro grandi gruppi:
.
1) l'inupiaq (in Alaska settentrionale);
.
2) l'inuktun (nell'Artide occidentale canadese);
.
3) l'inuktitut (nell'Artide orientale canadese); questa lingua è la lingua propria degli Inuit ed è una lingua, al pari delle altre lingueeskimo-aleutine, agglutinante, ossia forma le parole unendo singole parti dall'una e dall'altra secondo una precisa logica sintattica. Il termine agglutinante deriva dal latino gluten, glutinis che appunto vuol dire "colla". Tale lingua è una lingua polisintetica, tende cioè a concentrare intorno ad un nucleo logico-semantico, intere frasi, dando come risultato aparole spesso esageratamente lunghe, per noi. Ad esempio qasuiigsagbigsagsinnitluinagnagpug significa “non siamo riusciti assolutamente a trovare un luogo in cui riposare”. Altra caratteristica della lingua è l'ergatività, termine spesso opposto a quello di "assolutività". Entrambi i termini si riferiscono alla parte nominale del verbo: una lingua è ergativa quando assegna una marca al soggetto del verbo transitivo, mentre è assolutiva quando la marca cade sul soggetto del verbo intransitivo. Lingue ergative sono, oltre all'inuktitut, il basco e il dyrbal. La coppia "ergatività-assolutività" ha ricevuto un'altra interpretazione da parte del generativismo di Noam Chomsky, secondo cui l'ergatività si riferisce non alla parte nominale, ma ai verbi intransitivi che non possono essere mai seguiti da complementi oggetto.
.
4) il kalaallisut (in Groenlandia); essa è parlata in Groenlandia ed èstrettamente legata alla lingua Canadese, è anch'essa una lingua polisintetica ed ergativa, caratterizzata dall'assenza di parole composte che lasciano spazio a parole derivate. Il groenlandese ha tre dialetti principali: quello del Nord, dell'ovest e quello orientale; Il dialetto orientale, numericamente il più rappresentativo, è denominato Kalaallisut edè parlato da circa 50.000 persone. Il dialetto nordico, l'Inuktun, parlato intorno alla città di Qaanaaq (Thule) è collegato strettamente a Inuktitut canadese. Due semplici esempi: il nome Inuktitut è tradotto in Kalaallisut, come Inuttut mentre una delle più famose parole Inuktitut, iglu (casa), diventa illu in Kalaallisut. Contrariamente alle lingue canadesi, il Kalaallisut non è scritto con l'alfabeto Inuktitut ma con quello latino. Un carattere speciale, il simbolo Kra fu usato esclusivamente in Kalaallisut fino a che una riforma di ortografia non lo sostituì con la lettera q.

L'alfabeto Inuit .

giovedì 10 dicembre 2009

LA PESCA SUL LARIO TRA PASSATO E PRESENTE (terza parte)



Oggi, anche perché sono finalmente stati applicati alcuni criteri di razionalizzazione della pesca (soprattutto a tutela degli esemplari in età pre-riproduttiva) la situazione è sicuramente migliore e le principali specie ittiche (Coregone, Agone) godono di buona salute. E’, per la verità, anche profondamente mutata la “funzione” della pesca nella società. Da attività legata prima di tutto allo sfruttamento commerciale e alimentare della risorsa-pesce, la pesca tende sempre di più a trasformarsi in una pratica “sportiva”, finalizzata esclusivamente all’occupazione del tempo libero. Per fare un esempio, nel 1994 i possessori di licenza di pesca di categoria A, quella cha abilita all’esercizio della pesca professionale nel Lario con le reti, erano 73, mentre solo cinque anni prima il loro numero superava le cento unità, e agli inizi del secolo scorso, raggiungeva le trecento.



Viceversa, nelle province lariane (Lecco e Como) sono oggi presenti più di ventimila pescatori “sportivi”, che esercitano la pesca non per fini di lucro, ma per semplice diletto. Se il “boom” della pesca sportiva è facilmente spiegabile all’interno dei grandi cambiamenti sociali verificatesi negli ultimi decenni (sempre maggiori risorse vengono destinate al riposo e al divertimento), il declino della pesca professionale ha probabilmente radici più sottili e complesse. Nel determinare una tale tendenza non sembrano infatti prevalere fattori strettamente e direttamente economici, dal momento che la pesca di mestiere garantisce ancora guadagni per lo meno non sensibilmente inferiori al recente passato. Più verosimilmente la pesca è oggi rifiutata dai giovani – come scelta professionale – perché ritenuta di “basso profilo sociale”. Restando così le cose, è facile prevedere che la figura del pescatore di mestiere è destinata a scomparire dal Lario, determinando così una situazione di “sottosfruttamento” delle risorse ittiche lariane e la scomparsa di una cultura e di una tradizione che hanno radici antichissime nelle comunità rivierasche.

.

lunedì 7 dicembre 2009

IL GIUBBOTTO SALVAGENTE


E’ obbligatorio averlo sempre indosso (può salvare la vita). Deve avere la cerniera anteriore in plastica e un sistema di adattamento a cinghia per fissarlo in vita. Inoltre deve essere avvolgente, di colore vivace magari con inserti catarifrangenti, munito di tasche davanti e dietro per riporvi del materiale e avere un galleggiamento di almeno 6 kg (un uomo adulto, immerso in acqua, pesa mediamente 4 kg). I modelli omologati assicurano generalmente 10-12 kg di spinta. Il materiale di galleggiamento deve essere costituito da schiuma espansa a cellule chiuse. Il salvagente deve essere sufficientemente abbondante da non causare fastidio alle ascelle durante la pagaiata, ma non tanto da scivolare sul visto quando ci si immerge in acqua.



E’ utile per la sicurezza portare sempre con sé, magari legandoli con un cordino al salvagente e riponendoli nelle tasche dello stesso, i seguenti oggetti:

- Il fischietto (può essere utile in caso di emergenza e dobbiamo attirare l’attenzione di qualcuno).
.
- La luce stroboscopia (si tratta di una torcia stagna che lampeggia a intervalli di circa un secondo. E’ un segnale di pericolo. Serve a evitare collisioni in mare o a facilitare l’individuazione della propria imbarcazione ai mezzi di salvataggio, soprattutto a quelli aerei. La luce stroboscopia deve essere usata solo in caso di emergenza. Si può legare a una spallina del salvagente, in monda da renderci immediatamente visibili in caso di naufragio).
.
- Il tappanaso (l’uso del tappanaso si rivela insostituibile quando occorre rientrare nel kayak capovolto, per poi eseguire un eskimo).
.
- Il legapagaia (consiste in un pezzo di elastico o anche di sagola – lungo circa 60 cm, che serve ad assicurare la pagaia al salvagente o al polso per evitare di perderla durante le giornate di vento o in caso di uscita bagnata).
.
- Il coltellino da kayak (con lama e punta arrotondata, utile per tagliare cime e corde soprattutto in caso di emergenza).



.

giovedì 3 dicembre 2009

LIBRI – GROENLANDIA IN SLITTA, PER MARE, PER ARIA.


Cristalli diafano - azzurri, freddo intenso, latrati e sottili crepitii rappresentano il suono-colore della Groenlandia in primavera. La sinergia tra immagini e testo di questo diario fotografico di viaggio evoca una “geografia psichica”, frutto diretto del modo con il quale immancabilmente interpretiamo il paesaggio naturale ed umano che ci circonda. Mentre i freddi refoli insediano incessantemente le barriere termiche dell’equipaggiamento tecnico, viene immancabilmente da pensare che il chiamare questa gigantesca isola Grønland (Terra Verde) sia stata una delle prime spregiudicate operazioni di marketing territoriale che la storia occidentale abbia conosciuto. Puoi girare in lungo ed in largo Kalaallit Nunaat – questo l’originale nome inuit, che significa pressappoco Terra dei Popoli – e ti sarà difficile trovare un solo albero (anche se vi è chi vocifera dell’esistenza di alcune specie “nane”, di cui però neppure molti tra gli abitanti sembrano essere a conoscenza). Nei pochi mesi di disgelo la stretta fascia costiera si riempie – è vero – di erba, fiori ed arbusti, ma anche di migliaia e migliaia di zanzare. Forse solo il sogno di una energica spinta alla colonizzazione ha spinto Erik il Rosso, condottiero e navigatore normanno, a coniare il nome vichingo che ha reso nota universalmente l’isola a partire dalla fine del X secolo. Si potrebbe ipotizzare che l’estro del navigatore fosse supportato anche dal fatto che si trovò costretto a fuggire dall’Islanda in seguito all’accusa di omicidio, non a caso ritirata per benevolenza dei giudici quando, poco dopo il suo rientro, Erik organizza una flotta di venticinque navi che ospitano circa 1500 persone invaghite dal grande sogno di costruire fattorie sulla nuova “verde landa”.
Ma forse è proprio tutto quel bianco che stimola la fantasia, di cui danno prova anche numerosi tra i nomi e gli epiteti che gli inuit hanno scelto per descrivere il loro territorio: è come se circoscrivendolo e nominandolo in qualche misura dominassimo il senso di smarrimento che esso genera almeno in chi ne viene a contatto la prima volta.
Con la sua reflex digitale l’autore ha tentato una operazione analoga: incorniciare e circoscrivere nell’esiguo spazio dell’obiettivo un territorio vasto ma non poi così uniforme, quasi si trattasse di un rito sciamanico per allontanare il senso di candida alterità od il disagio del freddo intenso.
I risultati di questo sforzo di appropriazione, intriso di scoperta, conoscenza e ricerca introspettiva, e di questa naturale e istintiva rappresentazione, compongono questo libro, testimone del fascino e dell’emozione esercitati sul viaggiatore che incontra la natura forte e ancora primitiva di questa terra.
.
TITOLO: Groenlandia - in slitta, per mare, per aria.
AUTORE: Fabrizio Pecori
EDITORE Cartman Edizioni
27, 50 EUR - Pagg. 120 – anno 2005




Cartman Edizioni partecipa al progetto Impatto Zero® di LifeGate. Le emissioni di anidride carbonica prodotte per la realizzazione di questo volume sono state compensate con la riforestazione di un’area boschiva in crescita in Costa Rica.
.

lunedì 30 novembre 2009

IL PENDOLINO, UN TESSITORE LUNGO IL FIUME



Dal nostro kayak lo possiamo osservare mentre costruisce il suo elaborato nido sui salici del parco dell’Adda Nord. Appartiene all’ordine Passeriformes, famiglia Remizidae, uccelli di piccola taglia legati a boschi aperti, la cui dieta è prevalentemente insettivora. Costruiscono nidi molto particolari a forma di marsupio. Il suo nome scientifico è Remiz pendulinus.





Piccolo, lungo poco più di 10 cm.. Il maschio ha la testa e la nuca color grigio-chiaro e mascherina nera. La gola è biancastra. Anteriormente il dorso è castano chiaro. Parti inferiori da color grigio a crema. La femmina è simile al maschio ma ha una mascherina più ridotta e generalmente è più bruna. Abita in zone umide d’acqua dolce o salmastra; nidifica sulla vegetazione ripariale arborea in aree di pianura (soprattutto in saliceti entro i 200-300 m di quota). Si nutre prevalentemente di piccoli insetti e, in autunno e inverno, anche di semi.



In Lombardia nel periodo riproduttivo è più frequente nella pianura centro orientale, mentre in inverno è più diffuso, in quanto alle popolazioni locali si aggiungono contingenti provenienti da nord. Il Pendolino è una specie abbastanza selettiva nella scelta dell’habitat riproduttivo, per cui appare determinante per la sua conservazione il mantenimento della vegetazione ripariale ad alto fusto. Il nido ha una forma molto particolare: il Pendolino tesse infatti un piccolo sacchetto con ingresso laterale a tubo, che spesso pende da un ramo proteso sull’acqua.


.

giovedì 26 novembre 2009

GROENLANDIA 2009


Groenlandia 2009.
La bussola verso il Grande Nord: un'attrazione irresistibile. Da Keflavik verso l'Islanda. Poi ad Est, al campo base di Tasilaq. Di Massimo Maggiari, 29 Settembre 2009.

"È apparso una notte di luglio. Era il mio messaggero. Non aveva né volto né ali. Una semplice voce nell'ombra. Con lui s'accompagnava il muso di un orso bianco, la sua espressione quieta. Era come se mi ascoltasse, aspettando una risposta. All'invito di quel silenzio, giungeva un mio sì. E a piccoli passi, il progetto di partire lontano. Destinazione: la costa est della Groenlandia".


Prima tappa. Keflavik. Attraverso l'IslandaL'Islanda è sempre una meraviglia da visitare. Fa rinascere una sensazione di piacere al primo impatto. Sempre vuota e libera dagli eccessi. E alleggerita dalla crisi... su di una rivista leggo che gli islandesi sono ritornati alle radici, al buon senso. Hanno lasciato la città e sono ritornati sulle coste, nelle anse, per i fiumi. La crisi li ha riportati ai luoghi e alle attività degli antenati. Fuori della capitale si mangia e si dorme sotto un tetto. Come pure si attende l'inverno preparando conserve. I negozi di lusso della capitale sono chimere lontane, e i cantieri fermi come giganti inceneriti al sole. Si è ritornati al mondo delle saghe, delle storie, dei canti. Del sano lavoro di tutti i giorni. Delle piccole cose sotto la neve e il vento. Senza brame o fame. Fino al sabato santo.

Kulusuk. Costa Est della Groenlandia. Calibra la virata il pilota della Icelandic Air, alla discesa guardo fuori dal finestrino, e sento l'emozione emergere fitta dal costato. Tra le nubi spuntano improvvisi gli scogli e poi le pareti sofferte di roccia. Qui la costa è sola e si perde all'orizzonte in mille frantumi. Galleggiano aleggiano tra le acque ribollenti di schiuma enormi blocchi di ghiaccio. Si trasmette un gelo per le ossa, che solamente al vederli, pare tutto vellutato di blu. Queste vette vaganti comunicano una presenza forte, a dir poco enigmatica. Mi chiedo: da dove vengono? Dove staranno andando? Con chi navigano? All'occhio che li intravede si mostrano così umbratili estatici... dispersi per le terre degli Inuit.La pista sterrata ci fa rimbalzare dai sedili al primo morso del carrello. Per fortuna, l'arresto è quasi tutto immediato. Sviolinato da un finale tutto freni e scricchiolii. Affioriamo dal portello in una giornata che è rinata al sole. Intorno siamo circondati da picchi e fiordi ancora tappezzati da macchie di neve. È uno scenario che sfida le consuete abitudini dei nostri sguardi. Ma con gentilezza, senza turbare troppo. L'aria risveglia dal torpore, più che altrove intensamente pungente. Dirigiamo con alcuni italiani al battellino rosso che ci attende presso il molo vicino all'aeroporto. Passiamo gli zaini e le borse, mentre si fa prontamente cordata insieme. Inutile mentirsi tra gli sguardi che si incrociano e le mani che afferrano. Siamo lontani da casa, un milione di miglia. In terra incognita. Attorniati da ghiacci e fiordi mai navigati nelle nostre anime. Il carico è completo. Passano pochi istanti d'attesa, e poi subito, il motore rantolante cerca strada. Con la giacca a vento ben abbottonata inizia il nostro viaggio di transfert alla meta. Sfrecciamo a saetta nell'oltre di quell'immensa cornice, che per noi è il cuore più selvatico del mondo.


Campo base. Tasilaq. Dopo due ore di spruzzi e salti, entriamo nel fiordo di Tasiilaq sfrecciando tra due scogli che segnano un passaggio d'entrata. Poco più in là i galleggianti di una rete rivelano la presenza umana. E ancora più in là, la pace di un'ampia insenatura ci attende. Vicino sulle riviere brillano mille fazzoletti di neve sparsa, mentre un drappello di iceberg vaga tra i solchi blu delle acque. Mi chiedo: saranno loro i discreti guardiani di questo luogo? Sulla sinistra il rombo di un elicottero ci annuncia il villaggio, le sue case, la sua gente (circa duemila). Intorno, gli edifici lentamente s'affacciano all'occhio come puntini aguzzi di colore rosso e blu che costeggiano varcano, scalano ovunque per quel ramo di costa. Sono leggeri aerei quei profili. Ispirano al cuore l'avventura. Accostiamo. Uno scoglio meno ostile ci fa da punto d'attracco. E finalmente terra quella che tocchiamo. Destinazione sollievo dopo un lungo viaggio. Incontriamo Robert Peroni (www.tuning-greenland.com) presso la "Red House", in cima alla prima collina. Sarà proprio lì, il nostro alloggio, con il nostro pane quotidiano. Si presenta con fare amichevole questo distinto signore, e un sorriso prudente. La sua storia rasenta il mito e ricorda tanto quella di Nansen, l'esploratore norvegese, padrino di Amundsen. Peroni, alpinista noto, e viaggiatore di wilderness negli anni ottanta, e oltre, deciderà di fermarsi lassù in quella terra che attraverserà ben dodici volte per l'Ice Cap. Al punto che farà della Groenlandia casa sua. Abbracciando quel continente di ghiaccio sempre di più, sposando anche una donna Inuit. Negli anni che seguiranno, costruirà pezzo per pezzo la Red House per invogliare visitatori da tutto il mondo ad avventurarsi in quell'angolo perduto di bellezza. Oggi lo chiamano eco-turismo ed è una risorsa economica importante per la gente del posto. Ma questo signore di Bolzano prosegue ben al di là di quella prima vetta. Peroni s'innamora non solo dell'aura magica dei luoghi, ma prende anche a cuore la gente che lì vive stimandone le antiche usanze. Le ragioni sono semplici. Gli Inuit sono da sempre pacifici, laboriosi, vigili all'ambiente. Non ho intervistato l'alpinista con carta e penna, né mi sono guarnito di videocamera a ogni minima occasione. Lo ammetto. Non ne ho avuto il coraggio. Perché mi è bastato essere ospite alla Red House per una settimana guardandomi in giro. Questo ho visto con i miei occhi. Peroni ha creato un saldo ponte col suo mondo di origine. Il Sudtirolo. Le spedizioni e le visite dall'Italia si susseguono senza interruzioni per tutto l'anno. Ma soprattutto ha creato un forte legame con gli abitanti di Tasiilaq. Molte delle persone che lavorano al suo centro sono Inuit. E molte bussano per cercare lavoro, per vendere qualcosa, o per cercare aiuto: praticamente tutti i giorni. Una mattina ho notato impressa la più squisita dolcezza sul volto di due anziane signore del luogo che lo venivano a salutare. Lo rivelo a Peroni che condivide, poi aggiungendo: "Sai quella signora al primo scalino, dall'espressione così amabile, è nata e vissuta in una casa di sassi e terra, in un villaggio sperduto lontano millenni dal nostro mondo..." Mi dico dentro: è quindi proprio vero che sobrietà dei modi e nobiltà d'animo s'accompagnano di pari passo. Un'altra mattina un signore anziano con un magnifico sorriso ha consegnato al signor Peroni delle piccole sagome di legno ritraenti la balena Narwhal. Si sono seduti, si sono parlati, e si sono scambiati le sculture dal lungo unicorno con della valuta. Allungata sul tavolo con massimo rispetto. E un sorriso più pronunciato che diceva all'anziano: quello che tu fai è importante. Ci nutre. Fa parte di noi. È un dono, di cui siamo grati. Di questi tempi, in cui tanto si parla di globalizzazione, scambi e interscambi, non si parla ahimé di buone maniere, e di quanto esse siano cruciali tra persone e mondi lontani. Per farli avvicinare. Ma stiamo attenti. Non sto parlando di formalismi ed etichette da salotto borghese. Sto parlando di un modo di fare che genera reciprocità e fiducia reciproca. Anche tra persone distanti generazioni. Perché antico, ri-vitalizzante e proteso al futuro. Un modo di fare che relaziona la nostra quotidianità al mondo, a tutto il mondo, compresa natura, animali, antenati. Da sempre. Questo ho intravisto in Peroni, un soffio di Sapienza arcaica che benignamente collega vite e luoghi (anche se lontanissimi) alla vita con la ELLE maiuscola. Al suo grande disegno. Quell'Anima mundi che tutti condividiamo e che nutre come l'aria tutta la creazione del pianeta. Pensate se a ogni respiro seguisse un gesto di gratitudine, come cambierebbe la nostra piccola vita. E non pensate sia utopia. Gli indiani Lakota terminano ogni loro cerimonia con una frase-preghiera "Mitakuye Oyasin/To All Relations". Un ringraziamento a tutto quello che sostiene il viaggio delle nostre vite. Consapevolezza profonda che non siamo soli. Neanche agli estremi poli del mondo. Ma siamo un intero universo che respira.




La guida danese. Alla "casa rossa" faccio anche la conoscenza di Olaf. Un danese alto e ben piantato che fa da guida per il mondo agli appassionati di kayak. Il suo gruppo deve arrivare fra tre giorni. A cena condividiamo le nostre storie sull'artico, i suoi protagonisti, e le sue vicende. Parliamo di Amundsen e del Duca delgi Abruzzi. Gli spiego la mia ammirazione sia per il norvegese che per l'aristocratico italiano. E lui mi rivela il personale apprezzamento per Vittorio Sella e le sue splendide foto, specialmente quelle della Georgia e del Caucaso. Ma ci inoltriamo avanti. Nei temi della durezza dell'ambiente artico e della sua sopravvivenza. Olaf ha cacciato con gli Inuit in diverse occasioni e periodi più o meno lunghi. Sostiene di aver osservato tre cose in quella gente così caparbia e diversa da noi. Innanzitutto, che sono creativamente pieni di risorse. Se una slitta si danneggia, o un cane si ferisce, loro trovano sempre una soluzione. E in qualche maniera, la spuntano sempre, anche in una tempesta di neve. In secondo luogo, quanto siano attenti all'ambiente intorno a se stessi. "Se c'è un animale nei paraggi ne avvertono la presenza di gran lunga prima di te". Questo lo posso confermare io stesso perché ho assistito in mare aperto alla cattura di una foca, appena affiorata per un attimo tra due iceberg. Terza cosa, aggiunge, hanno un gran senso dell'umorismo. Che li aiuta anche in mezzo al peggior Piteraq (una specie di bora artica) in cui possono incappare. Peroni racconta di come un visitatore tedesco sia rimasto sospeso a quattro o cinque metri da terra in quel vento, con la moglie che lo guardava terrorizzata. "Gli avevo detto di stare al riparo che era un vento molto forte, non mi ha creduto... È finito sospeso in aria per un bel po'. Il Piteraq può arrivare improvviso in qualsiasi stagione. Si spegne in una decina di ore. E poi tutto ritorna come prima". Credere a ciò che non si conosce a volte può sembrare folle o ingenuo. Ma il non prendere in considerazione la selvatichezza del luogo e del suo tempo può essere in questo contesto l'anticamera di una tragedia, peraltro annunciata. Secondo, il danese Olaf quello è il punto clou dello spirito artico (e qui cita Arctic Dreams di Barry Lopez). Quello che meno ci si aspetta può capitare improvviso in ogni momento. Bisogna quindi avere prontezza, forza d'animo, anche per la peggiore eventualità. La calma di un pomeriggio estivo può risultare a volte finzione, apparenza. Mentre al passaggio di un kayak un iceberg esplode in una sassaiola che getta mille aculei di luce blu.



Per i fiordi. Nei giorni che seguiranno passerò il tempo tra ghiacciai, iceberg e piste scoscese. I sentieri saranno ben diversi da quelli a cui siamo abituati ad altre latitudini. Solo povere tracce su ripidi pendii marcati a lunga distanza da segnali rotondi in pittura blu e gialla. Partirò alla mattina presto dopo colazione con lo zaino e il tamburo a tracolla. A tratti ancora tormentato dalla scomparsa di mio padre. Dopo essermi defilato dal villaggio, sfilerò via il tamburo dalla custodia e riprenderò la marcia al suo ritmo lento e cadenzato. Guarderò le mie mani con un senso di pietà. Per quello che hanno fatto e per quello che hanno omesso di fare. Lo so oramai. Il nostro operare è solo conquista parziale. A ogni mio passo riflettono sempre le ombre del giorno. Ovunque oblique. Sarò una creatura appartata e unica che lentamente avanza nel ventre della montagna. All'andatura s'accompagnerà intermittente il canto. Lontani gli iceberg punteggeranno di bianco il mare, come perle in un immenso arazzo cosmico. Il resto sarà tutto vento, silenzio, passaggio lento ritmico alleante. Progressivo entrare nella totalità del presente. Nella sua fibra più essenziale e profonda. Mi dico: qui in questi luoghi ha vissuto gli ultimi giorni della sua vita Knud Rassmussen, il grande etnografo danese. O meglio il grande umanista degli Inuit. Quell'anima nobile che ha spiegato e illustrato al resto del mondo, l'artico e la sua gente. Tragicamente morirà per avere mangiato della carne di foca avariata. Qui, proprio qui, sono vissuti anche grandi sciamani come Sanimuinak, Kuuitse (sopravvissuto due volte da un attacco di orso) e lo stesso fiordo fu scoperto da un angakoq che lo riconobbe come luogo ideale per un insediamento umano. E qui ho camminato io per sette lunghe ore. Alternando tamburo e voce. Per arrivare fino alla vetta. Al suo lampo di cresta finale. In quella solitudine comparirà una guizzante ragazza danese. Bionda come il latte, tra gli spuntoni di roccia nero-scura. Così fresca e accesa di vita. Una vera figlia del vento, che perdutasi, aveva ritrovato la via col suono del tamburo. Qui ho capito che quel vecchio mondo di credenze e usanze forse, solo forse, non c'era più. Che gli spiriti del luogo parlavano ora altre lingue. Ma capivo anche che stava a noi il compito di reinventarlo quel passato magico, e farlo in qualche modo rivivere. Sì, farlo ri-vivere, ancora una volta: col suono, la voce, la poesia e il canto. Farlo ri-vivere come un'arte che risveglia senzazioni profonde, che ritualizza i nostri gesti nella verità del bello. Importante sia questo come un comandamento o una missione. Vero transito obbligatorio dell'anima al cuore. Per rilanciare un significato alla vita anche quando ci sfugge. Con un sorriso.



Massimo Maggiari (Genova, 1960) insegna Lingua e Letteratura Italiana all'Università di Charleston, in South Carolina. Lì organizza anche un Festival di poesia italiana. Ha pubblicato raccolte di versi, scritti saggi e recensioni su diverse riviste di italianistica. Nel 2008 ha pubblicato il libro Dalle terre del nord, alla ricerca dell'anima artica (Vivalda editore), nato da una serie di viaggi compiuti intorno al Circolo Polare Artico, dall'Islanda all'Alaska attraverso la Groenlandia e il Canada artico di Nunavut.
.

lunedì 23 novembre 2009

LA PESCA SUL LARIO TRA PASSATO E PRESENTE (seconda parte)



Alla fine dell’Ottocento la specie di gran lunga più comune nelle reti dei pescatori del Lario era senza dubbio l’Agone. A quei tempi l’Agone rappresentava mediamente il 50% del pescato totale, con valori pari a circa 200 tonnellate annue. In una rivista di pesca del 1891 è riportato che in quell’anno il pescato di agoni nel Lario ammontò a 235 tonnellate. La popolazione di Coregone, a quei tempi non aveva ancora sviluppato per intero il proprio potenziale, essendo stato introdotto nel Lario da pochi anni soltanto (la prima felice immissione del Coregone lavarello nel Lario risale al 1885). Curiosamente, secondo alcune testimonianze, il “primo” Lavarello del Lario, quello presente nei primi decenni successivi alla sua introduzione, mostrava qualche sensibile differenza rispetto alla forma attuale. R. Monti, in una ricerca sull’alimentazione dei pesci nel Lario del 1924, afferma infatti che “nel Lario oramai non sono rari gli esemplari di coregone che raggiungono il peso di 3,5 kg. Quest’anno furono catturati esemplari il cui peso si avvicinava ai 5 kg.” Attualmente la taglia del Lavarello non raggiunge simili dimensioni e gli individui di peso superiore al chilogrammo costituiscono già un’eccezione. Trovare i motivi di una simile modificazione è piuttosto difficile. Una recente (e affascinante) teoria attribuisce la progressiva diminuzione della taglia dei lavarelli del Lario alla selezione genetica operata per decenni dalle reti da pesca. La maglia attualmente adottata dalle reti per i lavarelli ha infatti una misura (35 mm di lato) più piccola di quella in uso nei primi decenni del secolo scorso, e tale da catturare precocemente i soggetti a più rapido accrescimento, favorendo la riproduzione degli individui di dimensioni minori. Anche se i dati precedenti, riguardanti il pescato degli ultimi anni dell’Ottocento, sembrano testimoniare una situazione di ricchezza e abbondanza, le prime avvisaglie di un forte calo delle produzione ittica apparvero proprio in quel periodo.

Un’apposita Commissione nominata agli inizi del Novecento per svolgere un’inchiesta sulla pesca nel Lario, iniziava con queste parole il lungo lavoro: “E’ un fatto certo, indiscutibile, constatato dai pescatori di professione e da chiunque peschi anche raramente e a solo scopo di diletto, che la pescosità del Lario è immensamente diminuita in questo ultimo decennio, e va di anno in anno rendendosi vieppiù scarsa”. Tra le cause allora individuata per dare spiegazione al declino del pescato troviamo alcuni fenomeni che ancora oggi vengono indicati come responsabili di gravi danni alla fauna ittica: “I battelli a vapore che distruggono il novellame e sconvolgono le uova sulle rive in tempo di frega, gli stabilimenti industriali sparsi sulle rive del Lario che scaricano strani prodotti chimici causa di forte sterminio, la costruzioni di sbarramenti senza la prescrizione di scale di monta per i pesci, la graduale soppressione delle spiagge ghiaiose a lento declivio, luogo di frega fondamentale per molte specie ittiche, per destinarle alla costruzione di ville, e soprattutto le irrazionali modalità di pesca, quali la cattura del pesce durante la frega e di taglia inferiore alla maturità riproduttiva”. Agli inizi del secolo la situazione andò quindi peggiorando e spinse nel 1910 A. Ricordi a scrivere un libro intitolato La fine della pesca nel lago di Como, dove si afferma che in quegli anni numerosi pescatori di Dervio, Onno, Bellagio e Lecco lasciarono le loro terre per trasferirsi sul lago Maggiore e sul lago di Lugano in cerca di maggiore fortuna. Alcune misure restrittive vennero applicate (divieto della rete denominata “bedina”) e il controllo divenne più rigido, ma negli anni ’20 la situazione si presentava ancora critica. Lo stesso R. Monti nel suo libro del 1924 La limnologia del Lario sottolinea la marcata diminuzione del pescato di agoni, “sia per la pesca sfrenata, sia per ripetute epidemie che fecero biancheggiare di cadaveri le acque del Lario”. Tali epidemie, secondo il Mazzarelli, furono dovute a infezioni causate da mixosporidi e decimarono la popolazione di Agone al punto che anche per questa specie si fece ricorso alla riproduzione artificiale.


.

giovedì 19 novembre 2009

Flaghéé “LE BANDIERE DEL LARIO”



Enzo Santambrogio e Davide “Birillo” Valsecchi hanno portato ad oltre 6000 metri le bandiere realizzate dai ragazzi del setificio di Como ed adornate dalle poesie in dialetto comasco: «Siamo gente nostrana in giro per il mondo, è con la lingua dei nostri vecchi che chiediamo al vento di dare voce alle preghiere dei nostri giovani».
Ora i “nostri” si prefiggono una nuova avventura e ad aiutarli in quest’impresa una figura leggendaria del kayak: Andrea Alessandrini. Ora settantenne è stato 7 volte campione italiano kayak e 5 volte campione del mondo come costruttore kayak da competizione, un autorità nel mondo della nautica a remi che per passione ancora progetta rivoluzionari prototipi. L’obbiettivo è compiere il periplo del Lago di Como su di una canoa polinesiana a remi adornata dalle bandiere di tutti gli stemmi dei Comuni del lago: i Flaghéé, le bandiere del Lario.
I due assesi utilizzeranno infatti una canoa polinesiana a quattro posti, irribaltabile ed irrovesciabile, progettata da Alessandrini per chi, senza esperienza o affetto da disabilità fisiche, vuole avvicinarsi in piena sicurezza al mondo della canoa. L’equipaggio risalirà lungo le sue sponde raccontando giorno per giorno la loro avventura tra le meraviglie della natura, della storia e della cultura lariana portando con loro il messaggio di unione ed appartenenza simboleggiato dalle oltre 40 bandiere riunite in un’unica ghirlanda.
Al termine del loro viaggio saliranno sul Monte San Primo, la montagna più alta del Triangolo Lariano, e con una piccola cerimonia esporranno ai venti del lago la ghirlanda di bandiere così come hanno fatto in Himalaya. Giovani e anziani, abili e diversamente abili insieme per portare le bandiere della nostra terra attraverso il lago e le nostre montagne, insieme perché i nostri venti, la Breva ed il Tivano, diffondano per il mondo le preghiere lariane.
«In 3 mesi abbiamo percorso oltre 3500km attraverso l’India, oltre 400km a piedi salendo fino a 6000 metri di quota per portare le bandiere di Como quanto più in alto potevamo. Questo è stato il nostro recente viaggio. » - racconta Davide - «Ora giochiamo in casa, abbiamo davanti a noi solo i 160km in canoa del periplo del lago ed i 1600metri del Monte San Primo ma la vera sfida sarà superare le distanze tra la gente e dare voce allo spirito del nostro lago. Sarà un grande viaggio! »
.
www.cima-asso.it/flaghee/
.

lunedì 16 novembre 2009

LA PAGAIA DA MARE

In linea di principio, il metodo usato per scegliere una pagaia da fiume vale anche per la pagaia da mare: il kayaker, tenendo l’attrezzo al proprio fianco verticalmente, dovrebbe riuscire a raggiungere la sommità con le dita della mano piegate ad angolo retto. Per l’utilizzo in mare, in verità, la pagaia deve essere più lunga di circa una spanna, cioè di devono aggiungere circa 30 cm alla lunghezza misurata col metodo descritto.

Quando le pale sono disposte a 90° l’una rispetto all’altra, la pagaia si dice a pale incrociate. Questo tipo di attrezzo, a seconda della mano attiva del kayaker, può essere “destro” o “sinistro”. Quando le pale giacciono sullo stesso piano, invece la pagaia si dice dritta. Il primo tipo di pagaia richiede una rotazione alternata delle pale durante la voga per poterle immergere correttamente in acqua.



Le pagaie più diffuse tra i kayakers moderni sono quelle a pale incrociate, mentre le tradizionali pagaie groenlandesi sono dritte, cioè hanno le pale disposte sullo stesso piano. Quale tipo scegliere? Noi non abbiamo dubbi: se gli antichi abitatori dei grandi ghiacci avessero voluto dotarsi di pagaie a pale incrociate, lo avrebbero fatto senza problemi. Sono tanti i vantaggi offerti dalle pagaie groenlandesi (minor affaticamento nei lunghi percorsi, ridotto effetto vela in presenza di forte vento da prua, maggior facilità nell’esecuzione degli appoggi istintivi, possibilità di effettuare diverse manovre a pala lunga, etc…) che viene spontaneo chiedersi perché non siano le più diffuse tra i kayakers moderni. Una bella domanda. Forse è solo questione di abitudine.


Una buona pagaia da mare deve possedere alcuni requisiti fondamentali. Innanzitutto deve essere robusta, per ovvi motivi, poi deve essere leggera, per consentire al kayaker di pagaiare per molte ore di seguito. Non troppo, però, dato che deve mantenere una certa inerzia durante la pagaiata in avanti. Il manico deve essere abbastanza rigido, e in tal senso è ideale la fibra di carbonio; l’alluminio è sconsigliato, ottimo anche il legno. Il kayaker deve poter impugnare la pagaia comodamente, e a tal scopo il manico deve essere di sezione leggermente ovale in corrispondenza dei punti di presa, il che aiuta anche a individuare la posizione delle pale rispetto all’impugnatura.



Le pale possono avere superfici piatte, curve o a cucchiaio, con profilo squadrato, curvilineo o asimmetrico. Inutile sottolineare che la configurazione delle pale è un fattore di estrema importanza. Per minimizzare le turbolenze, esse devono immergersi dolcemente in acqua, senza provocare spruzzi. Ogni spruzzo che si produce significa energia che si perde. Le pale più efficienti sono quelle a cucchiaio. Tale conformazione garantisce una maggiore propulsione, ma è troppo marcata e tende a provocare molti spruzzi. Per quanto riguarda il profilo, quello curvilineo – e ancor più quello asimmetrico – consente alla pala di immergersi piuttosto dolcemente.





Con vento al traverso, una pagaia provvista di pale lunghe e sottili è meno soggetta alle raffiche. Questo perché viene immersa con un angolo più acuto, perciò resta con la pala inattiva più bassa sulla superficie dell’acqua. Con vento in poppa, la pagaie groenlandesi beneficiano dell’effetto vela dovuto alla maggior esposizione della pala inattiva, il che favorisce la progressione. Col vento al traverso, invece, questo tipo di pagaia offre una minima resistenza all’aria, a tutto vantaggio della stabilità. Così non è col vento contrario, per quanto sia modesta la resistenza. Occorre aggiungere che l’uso della pagaia groenlandese, eliminando l’esigenza di ruotare il polso della mano attiva, riduce al minimo il rischio di insorgenza di tenosinoviti all’avambraccio.



.