"Vorrei imparare dal vento a respirare, dalla pioggia a cadere,
dalla corrente a portare le cose dove non vogliono andare,
e avere la pazienza delle onde di andare e venire, ricominciare a fluire..."
(Tiromancino)

venerdì 29 maggio 2009

IL KAYAK DI YAKAK

Io sono Yakak. Io sono Inuit, l'uomo, ma piango.
Mio padre mi parlò di un tempo lontano quando noi Inuit, uomini, eravamo soli sul grande ghiaccio. Allora tutto era pulito, il ghiaccio era bianco. La volpe, l'orso, erano bianchi. Quando nel cielo tornava il sole, tornavano a volare gli uccelli, le oche, gli edredoni e il gufo bianco. Tornava anche il grande falco bianco, il girifalco tornava a cacciare.
Quando arrivava il sole il ghiaccio cominciava a spaccarsi e si rivedeva il mare. Il mare era ricco dei suoi figli. I pesci, le foche, le balene dal lungo corno, il tricheco, l'orca e gli uccelli pescatori. Allora era il tempo di preparare il kayak.
Il kayak per viaggiare, per scivolare sulle acque calme o affrontare il mare infuriato. Il kayak che non affonda e che è facile drizzare. Il kayak per cacciare la foca, il tricheco o per pescare. Cacciare e pescare per mangiare, per vestire e per riscaldare le case del ghiaccio.
Il kayak per sopravvivere. Il kayak che non lascia traccia del suo passaggio.
Ma da allora sono venuti i grandi kayak di ferro, degli uomini del sud, che chiamano navi e che lasciano il loro segno.
Adesso il ghiaccio è rosso del sangue delle tante piccole foche, uccise per le loro pelli. I corpi scuoiati sparsi come lapidi di un cimitero grottesco, le madri dai seni gonfi e dolenti chiamano i loro figli, ma loro non possono rispondere. Di balene non se ne vedono più e dei tanti pesci sono rimasti solo pochi. Le uova degli uccelli non si schiudono più, si rompono e i pulcini non nascono, muoiono. L'acqua riflette i colori dell'arcobaleno nell'olio sottile che galleggia in superficie ma sotto soffoca. Si sente il fetore dell'alito delle navi e sul ghiaccio candido si stende un velo di polvere nera.
Questi uomini sono cacciatori. Uccidono per ricchezza, con facilità, senza alcun rispetto per la preda. Senza necessità. Non c'è onore nella loro caccia c'è solo morte.
Seduto nel mio igloo, ascolto il vento che mi parla. Mi porta il grido della vita che soffre e muore. Messaggero senza lacrime ma io piango.
Poi il vento ti sussurra tra le grida, il ritmo inconfondibile della pagaia di un kayak che solca l' acqua. E il vento viene dal sud.
Allora penso. Tra la gente delle navi ci sono alcuni che vanno in kayak come me. Io adesso so che c'è speranza perché c'è chi passa senza molestia, senza traccia. So, anche, che loro devono amare il mare non vogliono lasciarlo morire. So che ci sono altri come me che vogliono vivere in un mondo pulito. Vogliono vedere il mare ancora pieno dei suoi figli, i pesci, le balene, delfini, e foche. Vedere uccelli volteggiare nell'aria, giocare con i venti. Vogliono spiagge pulite dove riposare al sole e fiumi che portano solo acqua pulite al mare.
Vogliono che i loro figli vivano in un mondo bellissimo. Adesso so che non sono solo. Io ho dei fratelli sotto il sole a mezzogiorno.
Rido, c'è speranza e sono felice.
I miei fratelli, non li conosco e mai li conoscerò ma mi basta sapere che ci sono. A tutti coloro che vanno con rispetto per la vita, auguro che le loro pagaie possano sempre trovare acque limpide, e dico, dipende solo da noi.

Colin Simeons (tratto da Associazione Italiana Kayak da mare, bollettino primavera 1993 pag. 26 – segnalato dall’amico Marco Eko Ferrario).


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